Il Palio di Sinta Tantra prende ispirazione da un’opera del Pintoricchio. Già nel 1955 Dino Rofi, aveva adottato una soluzione del genere per onorare l’artista, ma nel Cencio della giovane di origini balinesi, gli elementi galleggiano senza incontrarsi.
Un oggetto così carico di simboli e di araldica, di depositata memoria iconografica e di figuratività allegorica cittadina come il drappellone che si consegna in premio alla Contrada vittoriosa nel Palio di Siena è sempre oggetto – e ora più che mai – di discussioni a non finire. Sono poche le opere di pittura pubblica che hanno un rapporto così solido e controverso con i sentimenti popolari, con dispute critiche, con canoni devozionali.
Pur essendo un’opera non concepita per essere installata su un altare e anzi trascinata in trionfo per le vie, appesa poi ad un museo, custodita con gelosa fierezza, il palio – da “pallium”, manto – deve osservare obblighi di varia provenienza e quindi trovare equilibri compositivi avveduti e scatenare una presa emozionale vera: quindi possedere una leggibilità che parli al colto esteta e al disarmato di estetica, a chi vuole esibire un raggiunto traguardo e a chi voglia serbare il vivo ricordo di un gran giorno.
Agli inizi degli anni Settanta la committenza comunale decise di affidare la confezione dell’oggetto di tanto desiderio anche a artisti – se la parola è ancora lecita – non per consuetudine legati a moduli tipici della tradizione e perlopiù operativi a Siena.
La ripetitività aveva annoiato e non era per niente eccitante proseguire su una strada che pur annoverava invenzioni di singolare impatto e di superbo mestiere.
L’Istituto d’arte era stato per decenni la fucina laboriosa che aveva formato decine di autori agguerriti, spesso chiamati a confrontarsi in animati concorsi.
La rottura con gli impianti più tipici di gusto purista, neorinascimentale, raramente liberty era già percepibile in talune prove a partire dagli inizi del Novecento quando alla dediche tradizionali – alla Madonnina miracolosa che si venera in Provenzano il 2 luglio e all’Assunta il 16 agosto, salvo carriere straordinarie – si erano andate accoppiando celebrazioni di anniversari e ricorrenze rilevanti di battaglie, personaggi, santi e vicende le più disparate.
Insomma il Palio – P maiuscola quando è manifestazione complessiva e p minuscola quando è corsa – si prestò bene a quel processo di nazionalizzazione delle masse o di urbanizzazione di chi lavorava in campagna su cui esistono seri contributi di taglio antropologico.
Lunga divagazione introduttiva solo per soffermarsi sull’ultimo episodio di una sequenza che meriterebbe un’indagine di respiro.
Ricordo tuttora la commozione che attanagliò Renato Guttuso quando, osservava i senesi scrutare il suo drappellone dell’agosto 1971: e rimanevano strabiliati perché le persone non indossavano più aulici costumi medievaleggianti ma avevano il volto e la grinta contemporanea di cittadini, abbigliati come d’abitudine nel quotidiano, che tentavano di riconoscersi nel realistico quadro.
Il drappellone – fu più chiaro da quella data – può dar luogo ad una sorta di arazzo che contenga araldica e apparato simbolico, può dar spazio anche a scene allegoriche e può infine ritrarre un pezzo di realtà elevandolo o meno a metafora di un rito molto complicato.
E le vie non è detto non s’intreccino spesso in composizioni cervellotiche o a più strati. Il formato crea non pochi problemi: la base del serico stendardo è di 80 cm. e l’altezza di 2 metri e cinquanta: una finestra lunga che obbliga ad una verticalizzazione ben studiata se si vuol fare qualcosa di coerente.
Per quest’agosto il sindaco ha voluto che a preparare questo oggetto tanto ambito fosse un autore inglese, per dimostrare che, malgrado la Brexit, Siena ci tiene a intrattenere con il Regno Unito i rapporti culturali profondi coltivati nei secoli. Poi alla dedica all’Assunta si è accoppiata la celebrazione – dir dedica è errore pacchiano – del dugentesimo anniversario della nascita di Giovanni Duprè.
Si può immaginare quanto sia stata laboriosa la scelta e quanto difficile partorire un risultato accettabile. L’artista, per vie diplomatiche più che sulla base di una conoscenza diretta del suo lavoro, è stata individuata in una giovane di origine balinesi, Sinta Tantra, nata a New York nel 1979, residente a Londra ed esperta soprattutto di allestimenti e decorazioni urbane.
E a costei è stato affidato un compito tutt’altro che semplice. Viene da chiedersi se sia questo il modo più efficace per esaltare il cosiddetto multiculturalismo, quando il problema è stimolare le varie culture a interpretare i moduli figurativi della festa senese ma senza eclettismo improvvisato o mix stilistici stridenti.
Sinta ha presentato un’opera che rivela molto apprezzabile impegno ma non soddisfa. È un caso da studiare. Ha avuto – ripreso – un’idea brillante.
Essendo abituata a trattare architetture ha dato al suo palio una struttura architettonica, mutuandola dai riquadri del Pintoricchio visibili nella Libreria Piccolomini in Duomo e raffiguranti capitoli della biografia di Pio II.
Fin qui tutto bene. Tanto più che già nel 1955 Dino Rofi, un bravissimo artista senese, aveva adottato una soluzione del genere per onorare il Pintoricchio. Ma per il resto ha decorato l’arco in alto con una serie di barberi dai colori delle Contrade partecipanti e ha inserito l’Assunta in un concio poco visibile, centrale e marginale.
Poi ecco due semidischi in tinte acide – il sole e la luna – che dovrebbero rappresentare opposte energie in conflitto. Al centro una palma che è presa pari pari da Pintoricchio e congiunge prediletto esotismo patrio con creatività rinascimentale nostrana.
E Duprè? La parte inferiore è occupata da una trascrizione in termini di commesso marmoreo da pavimento della cattedrale della “Saffo abbandonata”, una scultura che fece dannare non poco il suo abilissimo autore. Perché proprio Saffo è andata a pescare in un repertorio cos’ ricco di spunti religiosi certamente più intonati alla bisogna?
Infine alla base un pavimento a losanghe che è lontanamente imparentato con quello delle Libreria. La Saffo crea una vasta area bianca che squilibra la composizione. Nel vuoto gli elementi galleggiano senza incontrarsi. Ecco la dimostrazione che mettere insieme in chiave postmoderna pezzi che non dialogano tra loro si traduce in un “pastiche” divertente ma non in una tessitura unitaria.
L’impegno della donna è fuori discussione e i mugugni dei conservatori non meritano ascolto. Ma nel suo piccolo il drappellone di quest’agosto dimostra che il dialogo tra culture e scuole e linguaggi è cosa diversa dall’assemblaggio di elementi che non riescono a connettersi in un discorso e quindi in un’opera che sappia parlare con persuasiva incisività al popolo.
Allegoria di un tema che va ben al di là del circuito del Campo e del chiacchieratissimo stendardo che stuzzica tanto – troppo – agonismo.
Roberto Barzanti