Il 4 giugno del 1348 a Siena siamo al culmine del contagio dovuto alla Peste Nera che sta decimando la popolazione. Il bacillo della peste è “arrivato” in città nel mese di aprile e abbiamo già avuto modo di raccontare come le autorità sanitarie si mossero “in ritardo”, sottovalutando l’impatto mortale che avrebbe avuto e la facilità con il quale si sarebbe diffuso. I senesi sono disperati e, come sempre accade nei momenti di gravi calamità, inoltrano una petizione al Consiglio Generale nella quale si chiede “per elevare la mente a Dio con devozione e preghiere in questo momento di mortalità ed epidemia…a onore dell’onnipotente nostro Signore, e della Vergine Maria e di tutti i Santi la possibilità di fare solenni processioni fino alle calende di settembre”. Ma ormai si è capito che uno dei modi più efficaci per limitare la diffusione del morbo è proprio cercare di evitare gli assembramenti (vi ricorda qualcosa?) per cui la richiesta viene respinta, anzi arrivano tutta una serie di divieti per i quali si cerca di mantenere il distanziamento: si proibiscono, ad esempio, le celebrazioni religiose ed i funerali, tanto che i morti vanno da soli alle sepolture (a giugno sono già istituite le fosse comuni) dato che nemmeno i parenti più stretti possono accompagnarli.
Anche i governi di altre città colpite emisero provvedimenti simili per evitare o, almeno, limitare il contagio. Firenze fu addirittura più tempestiva: già l’11 aprile il Capitano del Popolo e i Priori avevano eletto un comitato di otto saggi che avrebbero dovuto prendere tutti i provvedimenti utili per arginare l’epidemia e tra questi fu stabilito di far sorvegliare il mercato e furono, appunto, vietate le processioni. Lo stesso a Pistoia si impose che i cadaveri dovessero essere chiusi in bare prima di essere trasportati fuori dalle case; fu regolamentata la profondità delle fosse per le sepolture; si proibì di introdurre cadaveri in città; non fu più consentito di visitare case in cui vi fossero morti, o di accompagnare i funerali oltre la chiesa, ad eccezione dei parenti più stretti; portare il lutto, se non per la vedova; annunciare pubblicamente i funerali; suonare le campane per i morti e le sepolture; abbandonarsi a manifestazioni pubbliche di dolore. Si vietò ogni motivo di raduno delle persone in uno stesso luogo, processioni devozionali comprese. A Orvieto le processioni furono vietate dal 1° agosto 1348 e anche la Santa Sede si mosse secondo l’eccezionalità del momento: “in questi tempi della mortale pestilenzia, papa Clemente sesto fece grande indulgenza generale delle pene di tutti i peccati a coloro che pentuti e confessi la domandavano a’ loro confessori, e morivan”, scrive Villani nella sua Cronaca.
Tornando a Siena, ma anche questo lo abbiamo già raccontato però fa sempre “effetto”, dal 16 aprile 1348 il notaio che compilava i registri del Consiglio Generale del Comune aveva lasciato bianche tutte le pagine a seguire, segno che la morte colpiva anche a Palazzo Pubblico e che non si trovavano notai disposi a ricoprire la carica (quelli rimasti erano davvero impegnati nel redigere i testamenti: più fruttuoso come lavoro, più pericoloso e ci fu anche chi ci speculò). Ecco dopo quel 16 aprile troviamo nei registri del Comune di Siena trascritta solo questa richiesta ritenuta di importanza tale da lasciarne memoria e poi seguono ancora pagine bianche fino in fondo al volume. Quando l’attività amministrativa riprende con una certa regolarità è il 15 agosto (giorno di Santa Maria Assunta, protettrice di Siena) ma la nota è raggelante. Si scrive come premessa: siamo alla presenza dell’epidemia e stiamo soffrendo la mortalità.
Maura Martellucci
Roberto Cresti
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