Facciamo l’inventario: la porchetta l’avete presa? Pane? Il pecorino, il salame, i baccelli (guai se mancano i baccelli)? Salciccioli e costoleccio? Il maglioncino se raffresca? Se la risposta è sì a tutte le domande siete pronti per il 1° maggio e per godervi la festa dei lavoratori. Se siete di quelli che un lavoro ce l’hanno (condizione ormai sempre meno comune) festeggiate due volte. Perché avete un lavoro e perché, avendolo, potete celebrarne la festa, oggi, non lavorando.
Magari, anche mentre ve la godete, però, cercate di non dimenticarvi che la festa nasce da un lutto e da una tragedia: quella che caratterizzò il 1° maggio del 1886, quando a Chicago, durante un comizio sindacale, scoppiò una bomba gettata contro la polizia, con la conseguenza di una giornata di scontri alla fine della quale si contarono dieci morti. Ne fecero le spese otto malcapitati arrestati, sulla cui colpevolezza reale si poteva e si può ancora dubitare, quattro dei quali finirono impiccati, uno si suicidò e gli altri furono, alla fine, liberati. Nel 1889 si decise che, in questo giorno, si sarebbe commemorato il fattaccio proclamandolo festa dei lavoratori. Nel 1956, per annacquarne la caratterizzazione un po’ troppo sindacalizzata e potenzialmente sinistroide, Pio XII pensò bene di dedicarlo a San Giuseppe Artigiano. Sempre di un lavoratore si tratta.
Il bello è che questa giornata è particolare fin dalla notte dei tempi, perché il passaggio fra il 30 aprile e il 1° maggio scandiva, a sua volta, la fine della stagione fredda e l’inizio di quella calda. Le popolazioni celtiche celebravano infatti la festa di Beltene, dedicata al dio Lug signore della luce e del fuoco, e a Roma, fra il 29 aprile e il 3 maggio, si svolgevano i Floralia, in onore della dea Flora.
Ma i passaggi fra un ciclo calendariale e l’altro (ormai ci abbiamo fatto l’abitudine: è dalle feste autunnali che lo vediamo risuccedere in continuazione) sono momenti “catastrofici”, di frattura e di inversione dell’ordine. E questo non fa eccezione.
Nella notte fra il 30 e il 1°, secondo la declinazione folklorica, si scatenano gli elementi nella battaglia fra l’inverno (destinato ad essere sconfitto e a battere in ritirata nelle gelide gole del Nord) e le forze dell’estate che vuole entrare. Estrapolazione ed estremizzazione di tale lotta diventano, ben presto, le streghe che, in questa notte magica, intasano i cieli volando al sabba e, di passaggio, infestano campagne, uomini e animali.
E così come le feste intorno al Natale sono scandite in dodici notti magiche invernali, l’arrivo della buona stagione e l’inizio del mese di maggio presentavano altrettante notti prodigiose la cui assonanza con le altre è impressionante: in certi paesi della Germania (e l’usanza è continuata a lungo) si celebrava il maggio con un albero decorato di candele esattamente come si fa con l’albero di Natale. Per chi non lo sapesse, nel Seicento i Puritani vietarono quest’uso dell’albero di maggio in Inghilterra e nel Galles, proprio perché troppo scoperte erano le sue radici pagane e idolatre.
Per devitalizzare il contenuto a-cristiano di tutto questo momento di orgiastico caos rigeneratore dell’ordine, del resto, la Chiesa collocò la notte fra aprile e maggio sotto l’egida di Santa Valpurga, badessa che, nata in Wessex intorno al 710, fu una delle evangelizzatrici della Germania, terra in cui morì, a Heidenheim il 25 febbraio 779 e dove fu sepolta, guarda caso, il 1° maggio 871. Da questo momento, la notte di Valpurga assunse una connotazione semantica curiosamente contraddittoria perché con questa dizione si finì per accentuare la valenza stregonica della notte stessa, anziché rilevarne il senso cristianizzato. Fate la prova: chiedete ai vostri amici se conoscono la notte di Valpurga e, quelli che risponderanno di sì, quasi sicuramente, la definiranno come “notte delle streghe” e cascheranno dalle nuvole quando gli racconterete che, sì è vero, ma Valpurga una strega non lo era davvero. Provate: comunque vada ci farete una figura pottona a bestia.
Il bagaglio folklorico, beninteso, non si fece più di tanto condizionare dalla domesticazione cristianizzata e continuò a manifestarsi con quella forza autonoma e indisciplinabile che posseggono le tradizioni ancestrali le quali, carsicamente, rispuntano fuori in occasioni particolarmente cariche di valenze sacrali, mettendo in seconda fila il santorale cristiano. Così in numerose località per far fuggire le streghe si accendevano fuochi e si faceva un casino infernale.
Altrettanto, si è continuato per secoli a celebrare la cesura fra la metà fredda e quella calda dell’anno, e lo si è fatto utilizzando proprio l’icona dell’albero (o della frasca verde) simbolo della natura che rinasce.
Per inciso: il collegamento simbolico fra l’albero folklorico e l’albero della Libertà di tradizione rivoluzionaria francese non è per niente casuale, perché il primo esemplare di questi alberi libertari fu piantato in un primo maggio: non tutti sono d’accordo sull’anno e sul luogo del primo impianto, ma tutti concordano sul giorno e il mese. E la coincidenza ha chiaramente un forte significato.
Questo contesto folklorico legato alla rinascita della stagione ha conosciuto una florida tradizione nelle campagne con il Cantar Maggio, il noto rito che si svolge nella notte fra il 30 e il 1°, con i maggerini che si presentano nelle case dei contadini e cantano invocando la felicità e l’abbondanza sulla casa e i suoi abitanti, e ricevendo (analogamente con quanto succede per altre feste: canto augurale/dono altrettanto augurale) come ricambio un’offerta, usualmente di genere alimentare (per curiosità: nel Seicento “cantavano maggio” anche le nostre Contrade. Chi ne volesse sapere di più vada a leggersi il bel libro di Mariano Fresta “Il cantar maggio delle contrade di Siena nel XVII secolo”, edito da Cantagalli).
Il maggio è il mese del corteggiamento (ma non del matrimonio! Secondo la tradizione popolare i matrimoni celebrati in maggio sono destinati a finir male. La Chiesa ha dato a questa superstizione una curvatura di santità e di esaltazione della verginità e della castità, dedicando il maggio alla Madonna, a partire dal 1725, anche se, in realtà il collegamento è già presente nel XIII secolo – vedi i componimenti poetico-religiosi di Alfonso X re di Castiglia e Leòn – e si ritrova ben chiaro fra XVI e XVII secolo) e il Calendimaggio, è anche l’occasione nella quale si scambiavano le promesse di matrimonio. Maggio, non a caso, si chiama anche il ramoscello che, secondo una diffusa tradizione, il giovane offre alla giovanetta desiderata.
La cultura popolare di mezz’Europa è piena di regine di maggio e di re di maggio che, addobbati di verde, impersonificano la rinascita della natura, mimata attraverso il corteggiamento. Se ne avete voglia, andate a leggere la storia, piena di simbolismo, del Cavaliere Verde della leggenda arturiana, che si presenta a corte il giorno del 1° maggio e chiede di essere decapitato, andandosene, poi, con le proprie gambe e la testa sotto braccio, metafora evidente della bella stagione che l’inverno non è riuscito né mai riuscirà a far morire. E rileggetevi, se ve ne punge vaghezza, tutta la storia di Robin Hood, tipica figura di re di maggio, vestito di verde, protettore della natura, delle foreste e degli animali, simbolo della giustizia che rinasce sempre nonostante le prevaricazioni. Alain de Benoist ci ricorda, a tale proposito, che, non casualmente, già all’epoca di Enrico VIII Tudor (1491-1557: quello che le mogli le cambiava come le automobili. Lui però non le rottamava: le ammazzava), già all’epoca dello Sciattamogli inglese, dicevo, il 1° maggio si eseguivano danze in onore della primavera, nelle quali i personaggi chiave del “narrato” erano proprio Robin e Marian.
Bene. Adesso che del 1° maggio sapete tutto, godetevelo in relax. Avete messo in macchina tutto, no? Anche il vino e la birra…no? Come no? Ma chi era che doveva portare vino e birra? Possibile, porcomomondo, che ci sia sempre chi non capisce quel che deve fare, nemmeno per la scampagnata del 1° maggio? L’anno prossimo, date retta, mettetevi in moto la notte del 30. O ci trovate i maggerini o ci trovate le streghe. Sarà sempre meglio che trovarci un coglione che lascia a casa il vino e la birra!
Duccio Balestracci