Scope volanti e maghi misteriosi. Aspettando la Befana

La fine della Grande Festa invernale: scope volanti e maghi misteriosi. Aspettando la Befana. Siamo arrivati al finale della rubrica del professor Duccio Balestracci, che ci ha accompagnato con storie interessanti per tutto il periodo delle festività

 

La Grande Festa volge al termine. Fra poco la bilancia pesapersone che avete accuratamente e ipocritamente tolto di giro riprenderà il suo posto fra il lavandino e la vasca da bagno e vi farà venire i più atroci rimorsi: siete pronti per i buoni propositi, tipo, da domani insalata scondita, via i dolci, il panettone manco lo guardo, i ricciarelli fatemeli sparire di casa, vade retro panforte? L’Epifania, è vero, tutte le feste le porta via (ma i contadini dicevano: “poi viene Sant’Antonio (del maiale: 17 gennaio) benedetto e ne porta un altro sacchetto”, perché a quella data comincia il Carnevale, sicché probabilmente ricomincerete a mangiare e a gozzovigliare e se, fra il 7 e il 17, vi siete messi a dieta sarà stato come spalare l’acqua col forcone); si diceva: l’Epifania tutte le feste (almeno per il momento) le porta via. E infatti la notte della vigilia del 6 è la dodicesima notte. Il ciclo magico-sacrale si conclude e il mondo torna nei binari consueti.
Che cosa ha di particolare il 6 gennaio? Beh, questo lo sappiamo: è la data in cui i Re Magi arrivano a portare i doni a Gesù Bambino e il momento in cui si ha l’epifania (il termine greco altro non significa che “manifestazione”) della divinità di Cristo. No non è questo, sostenevano gli gnostici, l’elemento fondante della festa dell’Epifania. E’ il fatto che in questo giorno Gesù riceve il Battesimo e solo in questo momento entra in lui la natura divina. La Chiesa (si è già detto) non riconobbe questa posizione e gli gnostici furono dichiarati eretici. Tuttavia, una lontana eco di quella credenza ancora resiste nel patrimonio religioso folklorico di alcune regioni. A Piana degli Albanesi (Sicilia, territorio di Palermo) per l’Epifania non c’entrano nulla i Re Magi, ma, al contrario, la stessa Chiesa effettua un rito che richiama apertamente la credenza gnostica. Il vescovo e tre sacerdoti si recano in processione presso una fonte dove viene immersa, in una sorta di “battesimo”, la croce. Un’altra citazione della stessa credenza gnostica si riscontra nel canto tradizionale che i ragazzi di Recanati recitano (o recitavano, non saprei dire se ancora lo fanno) la sera del 5 gennaio e che parla di “rive del Giordano / dove l’acqua diventa vino / per lavare Gesù Bambino”.
Ma perché proprio il 6 gennaio?
Ancora una volta siamo in presenza di una concrezione di miti, religioni e riti che, facendo perno su un giorno particolare, lo sacralizzano facendogli inghiottire storie diverse e facendogliele restituire assemblate, modificate, contaminate (ormai l’abbiamo capito, no? che la tradizione non esiste e che ciò che chiamiamo tradizione è una sommatoria di elaborazioni culturali sviluppatesi in ambienti diversi, in tempi diversi e poi affermatesi con una patente mistificante di immutabilità e di eternità). In questi giorni di inizio gennaio, si ha testimonianza già da circa un millennio a.C. di riti legati al ciclo stagionale e della fertilità. La dodicesima notte dopo il solstizio invernale (o, almeno, come si è visto, quello che si credeva essere il giorno del solstizio) è quella che segna la fine dichiarata dei giorni corti e l’allungamento delle giornate. Nell’antichissimo Egitto, il giorno corrispondente al nostro 6 gennaio era quello in cui veniva celebrato il solstizio invernale e, dunque, in cui si cominciava a salutare il Sole che rinasceva. A loro volta, gli antichi Romani festeggiavano la dodicesima notte salutando le figure femminili che volavano sui campi (attenzione a questa immagine: la ritroveremo) per propiziarne la fertilità. Secondo un’altra tradizione, sempre in questo giorno e sempre nell’antica Roma, si celebrava (e sempre in funzione di augurio per l’uscita dall’inverno) la dea Strenia, festeggiata con il rituale scambio di doni (le strenne, appunto).
La cultura germanica, per parte sua, conosceva riti non molto dissimili di saluto della nuova stagione collegati a figure femminili (ma la donna è “naturalmente” il simbolo della fertilità, e non ci si stupisce nel trovare questa costante strutturalmente presente in tutte le culture) come quelle di Holda o di Berchta. A partire dal momento in cui il Cristianesimo si impose come unica religione riconosciuta, tutte queste credenze furono bollate in massa come sataniche, e le presenze che volavano sui campi per benedirli non ci misero molto a venir demonizzate e ad essere trasformate in streghe. La stessa Befana, quale noi la conosciamo, è un personaggio ibrido e ambiguo perché porta doni, ma ha anche un aspetto repellente e cavalca (come le streghe) una scopa.

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Analogamente a ciò che fa in altri casi del genere, la Chiesa sincretizza e cristianizza queste figure sovrannaturali femminili ereditate dal paganesimo, riconducendole ad una sorta di archetipo unico, caratterizzato dalla funzione di dispensatore di doni, facendolo convivere, con identica funzione, con i Re Magi: non ci dimentichiamo che in alcuni contesti culturali (quello ispanico, ad esempio) sono ancora proprio loro a portare i regali ai bambini.

La tradizione popolare (non tanto la Chiesa ufficiale, in questo caso), per parte sua, però, almeno dal XII secolo, si incarica di cristianizzare definitivamente la vecchia dispensatrice di doni, associandola anche nel narrato della storia sacra con quella dei tre personaggi santi e rileggendola sotto forma di una donna alla quale i Re Magi domandano la strada per arrivare a Betlemme e che si rifiuta si accettare il loro invito a seguirli per andare ad adorare il Redentore. Presa, poi, da rimorso, la vecchietta riempie il paniere di regali e si mette in cerca dei Magi, ma senza successo. Allora decide di lasciare un regalo in ogni casa in cui ci sia un bambino, convinta che, in questo modo, uno di loro sarà sicuramente Gesù e riceverà il suo dono. E dal momento che questo gesto mostra chiaramente gli aspetti di una sorta di auto-punizione e di espiazione, come tutti i gesti del genere è destinato a ripetersi sempre uguale nel tempo. Per questo la vecchia, ogni anno, ripete il suo giro, carica di regali destinati ai bambini.
Eccolo qua il cortocircuito culturale che unisce l’antico concetto di dono propiziatorio alla figura della vecchia, ormai depotenziata della sua carica nefasta e pagana, associata adesso in una sorta di identificazione funzionalistica ai tre personaggi protagonisti tradizionali della festa dell’Epifania, appunto, i tre Re Magi.
Tre? E chi l’ha detto? Re? E chi l’ha detto? Magi? Questo sì, ma vediamo che cosa vuol dire. Una domanda alla volta.
Tre. Non lo dice nessun Vangelo canonico. Anzi, per la verità, solo Matteo parla di questi personaggi: gli altri tre Evangelisti non ne fanno menzione. E Matteo non dice affatto che erano tre: dice che vennero alcuni sapienti dall’Oriente; non ne riporta affatto i nomi (frutto di una tradizione apocrifa), né il numero, né – meno che meno – accenna allo loro dignità regale, della quale, peraltro, non c’è traccia nemmeno negli stessi Padri della Chiesa. A trasformarli in Re è la liturgia cristiana che, ancorando la festa alla manifestazione della nascita di Dio sotto forma umana, si riallaccia al Salmo 72 dell’Antico Testamento, dove si legge che vari Re offriranno tributi, interpretando la Scrittura come l’annuncio dell’omaggio a Gesù da parte dei popoli della Terra. I Vangeli apocrifi e la tradizione popolare li hanno, a loro volta, fissati nel numero di tre e hanno attribuito loro i nomi che conosciamo: Melech (che significa semplicemente Re, ma che diventa Melchiorre), Balthazar (è il nome di un sovrano babilonese) che diviene Baldassarre e Gasparre (che è la “traduzione” di Galgalath, ovvero, alla lettera, Signore di Saba).

Ma Magi in che senso? Nel senso che erano sacerdoti zoroastriani (rieccolo lo Zoroastrismo, cugino anziano del Cristianesimo) i quali conoscevano un’antica profezia secondo la quale, dalle parti di Israele, sarebbe nato un essere divino, salvatore del mondo e destinato a restaurare la luminosa età primordiale. Magi non vuol dire che facevano le magie: è la traduzione di Magoi, cioè membri di una casta sacerdotale dell’etnia dei Medi e appartenenti ad una tribù che aveva, appunto, quel nome. Avevano un’ascendenza sciamanica e una competenza assoluta in astronomia e astrologia, assimilate dalla tradizione caldea, grazie alle quali sostenevano di poter entrare in sintonia con il cosmo cogliendone i segreti.

Le loro sono figure potenti nella tradizione della storia della Nascita, tanto che la Chiesa le ha poi santificate e tanto che intorno alle loro reliquie si è sviluppato un culto formidabile. I loro corpi, secondo la vulgata, riposavano a Bisanzio, ma, narra una storia del IV secolo, Sant’Eustorgio (forse greco, ma vescovo di Milano dal 344 al 350: è importante, in quella città, quanto Sant’Ambrogio) di ritorno da Costantinopoli se li porta con sé nella sua cattedrale. Da qui li trafuga, come preda di guerra, nel 1164, Rainaldo di Dassel, cancelliere di Federico I Barbarossa che ha espugnato Milano due anni prima. Da questo momento le tre sante spoglie furono collocate a Colonia in una basilica costruita per l’occasione. Milano provò ripetutamente quanto inutilmente, nel tempo, a richiederle. Solo a inizio Novecento il cardinale Andrea Carlo Ferrari (1850-1921) riuscì ad avere qualche porzione di reliquia da poter di nuovo venerare nel capoluogo lombardo.
Eppure, nonostante l’importanza dei Re Magi, non c’è dubbio che, alla fine, ad avere avuto la meglio come figura popolare chiave della festa dell’Epifania non sono stati loro, bensì la vecchia puciosa e bisunta che va ancora a giro a cavallo di una ramazza che, verosimilmente, sai quant’è che non fa la revisione e che io non ci metterei il sedere sopra nemmeno pagato. La tradizione folklorica, insomma, ha avuto la meglio sulle superfetazioni zoroastriane e veterotestamentarie (dando ragione a chi sostiene che il tempo folklorico non è mai morto e che rispunta carsicamente all’interno del tempo cristianizzato), perché la Befana è una contraddizione biologica che ben rispecchia il momento di passaggio stagionale. E’ vecchia (dunque prossima alla morte) ma porta vita nuova (come una donna ancora fertile).

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Nella tradizione contadina viva fino a ben dentro il Novecento (ambiente nel quale Babbo Natale non si sapeva manco chi era), portava i doni e, insieme, svolgeva un rito fondamentale: impersonificata da un uomo avvolto in stracci e approssimative vesti muliebri e con la faccia contraffatta di cenere per non essere riconosciuto, la Befana entrava in casa, la sera del 5, andava al focolare e “pisciava” ritualmente sul ceppo acceso alla vigilia di Natale per spegnerlo (l’uomo usava a tal proposito un fiasco d’acqua ben nascosto sotto le gonnelle, tranquilli: non tirava fuori il pisello orinando al muro come un adolescente briaco) sancendo così la conclusione della Grande Festa d’inverno.
In alcuni riti, il fantoccio della Befana viene, ancor oggi, bruciato o segato (il rito lo ritroveremo anche a inizio primavera, a mezza Quaresima, nella pratica del “sega la vecchia”: se capita ne riparliamo allora) e dal suo “corpo” escono regali.
Però, come è noto, la Befana porta anche il carbone. Una punizione? Sì e no. Sì, perché la Befana è stata assunta ad elemento di controllo e disciplinamento del comportamento dei ragazzi (metafora della necessità di controllo e disciplinamento della juventus… no, non la squadra di calcio: la gioventù come status di età e gruppo sociale che, nella società tradizionale, si “contrappone” antropologicamente alla componente matura e anziana della collettività). Così. Il carbone e la cenere sono un marcatore di atteggiamenti riprovevoli e un invito ad attenersi alle pratiche sociali condivise.

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Ma il carbone e la cenere hanno, in realtà, anche un significato diverso e positivo. La cenere è un fertilizzante per la terra e il carbone è la citazione sia del ceppo che ha ormai svolto il suo ruolo propiziatorio, sia del fantoccio da bruciare ritualmente per invocare il rinnovamento del tempo. E dunque è un augurio, non una punizione.
Insomma, se trovate il carbone nella calza non ve la prendete più di tanto: forse è perché avete combinato qualche birbanteria, ma più verosimilmente siete stati fatti partecipi di un desiderio di primavera, che chiude un ciclo e ne apre un altro.

Duccio Balestracci