E se “Tirati in là m’arruffi” l’avesse scritta Alessandro Manzoni? Sì, proprio lui, l’autore de “I Promessi sposi” e di quel «Ei fu…» della napoleonica “5 maggio”. L’ipotesi è arrischiata, anzi proprio di fantasia, ma non del tutto fuori luogo. Perché? Perché la protagonista assoluta di questo canto della tradizione popolare è una servetta di un curato, che viene messa sull’attenti, proprio dal prelato, riguardo al matrimonio con tal Bista. Una situazione che richiama il rapporto tra Don Abbondio e la Perpetua. Nel capitolo VIII de “I Promessi Sposi”, in un dialogo tra Agnese (la mamma di Lucia) e la serva del curato, si parla proprio dei matrimoni andati a monte della seconda. Chissà che non siano saltati proprio per le parole sibilline di Don Abbondio. In “Tirati in là m’arruffi” la ragione per cui la servetta dovrebbe rinunciare al proprio matrimonio è chiara: se si sposasse rischierebbe di finire in miseria. Il servizio presso il curato, invece, è garanzia di pasti abbondanti e di bevute di qualità. Cose difficili a cui rinunciare, non è mica l’amore! Nel testo ci sono almeno due cambi di voce narrante che possono spingerci a sospettare un rapporto amoroso tra la servetta e il prete. Se fosse così il “tirati in là m’arruffi” sarebbe proprio indirizzato al curato e la vicenda sarebbe ricondotta a una specie di “scambio”, segno di tempi difficili, tra i due.
Questa ninna nanna per adulti è caratterizzata da un incedere allegro, che rende ironiche le parole usate nel testo. Le origini sono incerte, o almeno, ci sono due ipotesi formulate a fine ‘800. Giovan Battista Corsi la registra come canzone popolare senese, mentre Gino Galletti la indica come canto livornese. E’ frequente sui motivi popolari non esser sicuri dell’origine e quando ci sono delle dispute tutti i contendenti vogliono aver ragione. Noi restiamo nel dubbio, come ci restiamo sul destino della servetta di “Tirati in là m’arruffi”: si sarà sposata? Sarà rimasta al servizio del curato? Speriamo che non abbia fatto la fine della manzoniana Perpetua, morta di peste e non di miseria.
Tirati in là m’arruffi, che mi son pettinata…
La serva s’è avvezzata a’ boccon bòni
E tra polli e piccioni e patatine arrosto
La serva col Prevosto ci sta bene
Fanno di bòne cene, migliori desinari
Finché ci stanno i soldi nel borsello
Bevono l’acquarello e poi del meglio vino
Curato di San Martino glielo conserva
Disse il prete alla serva: Non lo sposare Bista
Farai una vita trista e sconsolata
Polenta e farinata la sera e la mattina
Pensaci poverina a quel che fai
Le passerai le pene, ne passerai di guai
Pensaci di star bene in tua vecchiaia
Sentilo il can che abbaia dice le sue parole
Dice che moglie vuole e non la piglia
Mettiti la mantiglia il manicotto e i guanti
Siamo arrivati a’ Santi e il freddo viene!
E a me non mi conviene d’andare a letto sola
Che sotto le lenzòla c’ho paura
E tirati in là m’arruffi,
E tirati in là m’arruffi…
Emilio Mariotti
(Riferimenti bibliografici Aa.vv.- Incanti di Siena, Nuova Immagine ed. Siena 1997; Giovan Battista Corsi – “Ninne nanne, cantilene, filastrocche, storie popolari, raccolte in Siena” in Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, XVII, Palermo, Clausen 1898; Gino Galletti – Poesia Popolare Livornese, R. Giusti, Livorno 1896)
Un ringraziamento a Michele Masotti per l’aiuto.
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