Via e Vicolo di Castelvecchio: il nucleo originario di Siena

Via di Castelvecchio unisce via San Pietro con Stalloreggi e circa a metà prende le mosse il vicolo che termina circa a metà di via Tommaso Pendola.
Uno dei pochi aspetti della storia di Siena su cui tutti si sono trovati d’accordo è che Castelvecchio sia il nucleo originario della città. Numerosi sono gli elementi a conforto di tale conclusione, che peraltro pare essere parzialmente confutata da recentissime scoperte avvenute sotto il Duomo, di cui parleremo più avanti: i ritrovamenti archeologici, la posizione strategica, sul punto più alto della città che permette di sorvegliare tutto il territorio circostante, la sua conformazione che ancor oggi, nonostante le trasformazioni ingenti subite dal Quattrocento in avanti, ricorda un castello più o meno in forma quadrilatera. In particolare è il tracciato delle strade ad evocarlo: le mura del “castrum” si sarebbero sviluppate da Via Pendola, come visto, sarebbero proseguite per Via San Pietro, avrebbero girato a sinistra ai Quattro Cantoni lungo Via Stalloreggi, e curvato poi verso Pian dei Mantellini, per tornare al punto di partenza in Via di San Quirico. Basterà dare uno sguardo ad una carta di Siena per rendersi conto che il castello è ancora lì, nonostante i mutamenti susseguitisi nei secoli, con le sue strade interne, appunto Via e Vicolo di Castelvecchio, oltre a Via di San Quirico, la sua corte sopraelevata, ancora perfettamente conservata, e le torri, come quella mozzata dietro piazza del Conte, nota come Torre Voltaia.
La tradizione vuole che in questo luogo abbiano avuto la propria sede prima le magistrature della colonia romana, poi il gastaldo longobardo e quindi il conte franco, senza contare che sempre in Castelvecchio avrebbero avuto la propria dimora anche i primi Vescovi di Siena. Riguardo alle prime, il Benvoglianti scrive: “Si vuole che i Pretori di Roma abitassero in Castelvecchio; avvi una casa che viene additata per abitazione d’uno di essi chiamato Marco Aurelio”; e proprio costa di Marco Aurelio é chiamata nello stradario del 1789 la parte in salita di Via di Castelvecchio che inizia di fronte alla chiesa di San Pietro. Se per ciò che concerne l’epoca romana ci si affida pressoché esclusivamente a ipotesi e leggende, diverso è il discorso per il periodo successivo; che i palazzi e le residenze dei gastaldi longobardi e, soprattutto, dei conti e visconti carolingi fossero dentro il Castelvecchio é, infatti, assodato. A confermarlo é il primo documento che ricorda il castello, datato 1010: si tratta di un contratto di affitto che vede protagonista il conte di Siena Bernardo e che viene stipulato nella casa del visconte Guido “ad locus ad castello vetero“. Nessuna traccia, invece, rimane dell’eventuale presenza del Vescovo nel castello, anche se è probabile che almeno fino al VIII-IX secolo episcopio e Cattedrale si trovassero proprio in Castelvecchio, anche se l’ubicazione di quest’ultima dove poi sarà costruito il convento di Santa Margherita, nonché la dedicazione a San Bonifacio, sembrano congetture un po’ troppo ardite.
Per riuscire a determinare il periodo in cui venne fondato il Castelvecchio è inevitabile addentrarsi in quell’inestricabile intreccio di storia e leggenda che da sempre caratterizza l’origine di Siena e in particolare rievocare il mito che la vuole “figlia di Roma“. Sotto lo pseudonimo di Tisbo Colonnese, Agostino Patrizi, nella seconda metà del XV secolo, divulgò la celebre leggenda di Aschio e Senio, figli di Remo e nipoti di Romolo, fondatori di Roma, nel tentativo di fornire alla sua città un’origine nobile e consona alla sua grandezza. Romolo, dopo essersi sbarazzato del fratello Remo, pare avere le stesse intenzioni sui suoi figli, Aschio, o Ascanio, e Senio; gli dei, però, che erano evidentemente dalla parte dei giovinetti procurarono loro due cavalli per la fuga, uno dal mantello corvino e l’altro bianchissimo, guarda caso i colori della Balzana, l’emblema di Siena.
Sottratta allo zio la lupa marmorea simbolo di Roma, fuggirono verso nord e dopo alcuni giorni raggiunsero le rive di un torrente di nome Tressa; qui si unirono ai boscaioli e ai mandriani del luogo e fondarono una comunità. Ben presto i due cominciarono a costruire un fortilizio sul colle più alto della zona, il cosiddetto Castelvecchio, o anche Castelsenio dal nome di uno dei fratelli. Romolo ovviamente non ci stette, e mandò due condottieri, Camelio (o Camillo) e Montorio (o Montonio), a caccia dei nipoti; giunti presso la roccaforte eretta da Aschio e Senio, essi costruirono a loro volta due castelli che presero i loro nomi e che costituirono il nucleo originario del Terzo di San Martino, il castello di Montorio, e di Camollia, il castello di Camelio. Ne scoppiò un conflitto di breve durata (i romani non sembravano, infatti, troppo propensi a combattere), terminato con la resa di Montorio e la pace siglata da Camelio che andò a vivere in Castelvecchio. Il positivo esito dello scontro venne solennizzato con l’espletamento di sacrifici in onore di Apollo e Diana fu proprio durante questo rito che dalle are si levano due dense volute di fumo: di colore bianco dall’ara di Diana e nero da quella di Apollo; a ricordo dell’episodio si decise di istituire la Balzana.
Prescindendo dall’apparato leggendario, è ovvio che la posizione strategica del sito sembra ideale perché vi sia stato edificato un “oppidum”, un villaggio fortificato, sin dall’età etrusco-romana. Con la caduta dell’Impero Romano, le città si spopolarono e si contrassero; Siena, probabilmente, fu circoscritta al “castrum”, costruito, o ricostruito sfruttando parti dell’oppidum precedente, intorno al VI secolo d.C. L’aggettivo “vetus”, che come visto lo contraddistingue dall’inizio del secolo XI, fu aggiunto, con ogni probabilità, quando la città cominciò ad ingrandirsi di nuovo in età longobarda, a significare perciò non tanto la sua antichità assoluta, quanto per contrapporlo alla parte “nuova” di Siena che si stava formando al suo esterno.

di Maura Martellucci e Roberto Cresti