Con il mese di marzo prende il via un nuovo appuntamento con SienaNews. I nostri lettori sanno che ci occupiamo di economia del territorio e di economia e finanza, più in generale. Da oggi cercheremo di avvicinare il pubblico ai temi e ai termini sempre più usati dai media ma che spesso risultano incomprensibili. Cercheremo di raccontare, attraverso esperti del settore, il mondo della finanza e dell’economia, di spiegarlo. Dato che in questi giorni è di attualità la questione della reversibilità, cominciamo a parlare di previdenza. Dal principio. Perché di qui si capisce come la questione sia ben inserita nell’attuale contesto di crisi.
L’attuale sistema italiano di previdenza pubblica è spesso comunemente considerato come un modello poco equo e malfunzionante, frutto di una serie di riforme che si sono susseguite per riparare a errori politici ed economici. Torniamo alle origini per comprendere come le riforme previdenziali abbiano rappresentato la soluzione a momenti di crisi, prima imprevedibili.
Proseguirò entrando nel dettaglio del come, del quanto e del quando pensionistico.
Nel 1881 il cancelliere prussiano Bismark collegò le prestazioni pensionistiche ai contributi dei lavoratori, introducendo un modello basato sulla responsabilizzazione del singolo. Qualche anno dopo, sui principi dell’accantonamento individuale, in Italia venne istituita la Cassa Nazionale di Previdenza per l’Invalidità e la Vecchiaia. Negli anni ‘40, Beveridge mise in discussione tale impianto, affermando che lo Stato sociale doveva garantire un livello minimo di sostentamento per tutti, da integrare con una componente personale. Tuttavia, l’Italia proseguì nel cammino tracciato da Bismarck fino alla seconda guerra mondiale, quando i livelli di inflazione a tre cifre, portarono 1000 lire accantonate nel 1939 a valere nel 1947, in potere di acquisto reale, solo 22 lire, depauperando le riserve pensionistiche dei lavoratori e impoverendo i pensionati dell’epoca. La soluzione al problema fu adottare il sistema pensionistico a ripartizione. Si creò un meccanismo sociale in cui i lavoratori sostenevano con i loro versamenti le pensioni degli anziani. Siamo negli anni ‘50 e tale patto intergenerazionale poteva essere sostenibile. Più tardi, all’alba del miracolo economico italiano, negli anni ‘60, la pensione viene calcolata sulla media degli ultimi anni di retribuzione (sistema retributivo), dando vita a importi generosi per molto tempo. Nel 1992 il sistema è messo in crisi dal pagamento di una quantità enorme di prestazioni. Il progressivo invecchiamento della popolazione e la diminuzione degli occupati, rispetto al numero dei pensionati mettono la previdenza di fronte a un cambiamento. Così nel 1995 Dini inserisce accanto al sistema retributivo anche quello contributivo. Fornero stabilirà poi che dal 1° gennaio 2012 tutti, indistintamente, riceveranno la prestazione pensionistica sulla base dei contributi versati. La sfida economica tra ieri, oggi e domani, per un modello previdenziale pubblico che rappresenti una conquista sociale è una sfida ardua. Lo Stato oggi restituisce alla responsabilizzazione individuale il problema previdenziale. In un paese come l’Italia, dove le donne diventano indipendenti economicamente a 34 anni e gli uomini a 31 (dati Istat) e sopravvivono, rispettivamente, in media più di 30 anni e più di 22 in un luogo chiamato pensione, forse è importante riflettere sulle modalità di servizio e sugli esiti del ritiro dall’attività lavorativa. In fondo, la storia della previdenza ci narra dell’adozione di modelli nuovi per far fronte ai cambiamenti della società.
Maria Luisa Visione