Avevo già osservato come il fenomeno della “Great Resignation”, originatosi negli Stati Uniti, stia prendendo sempre più piede anche in Italia. Si tratta di un lascito “non urlato” del proprio posto di lavoro per ragioni diverse: la poca flessibilità; l’attività non in grado di soddisfare le ambizioni professionali personali; il non allineamento tra valori personali e valori aziendali.
La tendenza in atto è confermata dai numeri del 2022, all’interno della nota trimestrale sulle comunicazioni obbligatorie del Ministero del Lavoro, relativa all’ultimo trimestre dello scorso anno. Sono quasi 2 milioni 200 mila le dimissioni registrate, in aumento del 13,8% rispetto al 2021; più uomini che donne, ma questo è facilmente comprensibile considerata la geografia del lavoro che vede ancora disparità di genere nelle diverse attività lavorative.
Si avverte la necessità di dare più spazio alla propria felicità che al denaro. Soprattutto per i giovani, che ancora non hanno carichi personali o familiari, cercare di vivere una vita soddisfacente, da subito, è un’esigenza prioritaria. Infatti, sono proprio loro che tendono ad andarsene, a spiccare il volo all’estero, ad espatriare come accadeva in passato, in cerca di opportunità che esprimano i propri talenti e che aprano alla crescita professionale. Giovani laureati, con competenze e qualifiche specifiche, che vanno via per un futuro migliore.
Secondo uno studio della London School of Economics, ogni anno, dal 2015, 50mila under 30 lasciano l’Italia. Nel 2022, in percentuale, parliamo del 10,7%. Considerati i nostri livelli di natalità bassissimi, è chiaro che oltre a un problema di cervelli in fuga abbiamo anche un problema di invecchiamento della popolazione in percentuale, che non arresterà a diminuire, ferma restando una tendenza all’esodo dei giovani di queste proporzioni.
Non è che c’è da stupirsi, basti guardare i prezzi degli affitti di Milano, dove ancora ci sono opportunità lavorative ma vivere è costoso, o i livelli salariali che stentano a crescere, e che per lavori più qualificati camminano, comunque, non simultaneamente al carovita. L’esodo è presente nelle città metropolitane dove abbiamo università di rilievo, e in alta percentuale al Sud.
Un altro elemento di riflessione è sulle destinazioni preferite: prevalgono Germania e Svizzera, Paesi in cui la retribuzione riconosce maggiormente le competenze professionali. In diminuzione, invece, gli over 60 che preferiscono trascorrere la terza età all’estero.
Tornando al fenomeno delle dimissioni, in Italia cercano attivamente un nuovo impiego il 29% dei lavoratori, consegnandoci il terzo posto in classifica (Fonte: Randstad Workmonitor). Focalizzando l’attenzione su chi, infelice, preferisce essere disoccupato, la percentuale sale al 34% nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni.
Insomma, la migliore gioventù se ne va, e il lavoro, anche quando c’è, non sembra, per una buona parte, corrispondere affatto alla meta aspirata.
Ancora una volta, ripropongo, una delle mie solite domande focus: siamo consapevoli del modello socioeconomico in cui viviamo? Oggi, e a tendere? Perché se non comprendiamo dove siamo, non possiamo sapere dove vogliamo andare.
In un’epoca in cui si licenzia con una mail, la ricerca della felicità non smette di essere un faro trainante.
Maria Luisa Visione
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