Brexit sì, Brexit no. Dopo la raffica di informazioni in vista del referendum di tenore catastrofista e speculativo, in molti si chiedono quali saranno le reali conseguenze, dato che, ad oggi, una Brexit non c’è ancora stata.
E’ interessante osservare che il piano del ragionamento si sposta ora sulle relazioni commerciali tra Regno Unito e UE, che hanno come conseguenza costi sui bilanci, non solo però della Gran Bretagna, anche della stessa Unione Europea.
La vera domanda rimane, infatti, quanto sarebbe costato al Regno Unito rimanere in Europa, che, in altri termini si può leggere proprio specularmente in “a quanto l’UE dovrà rinunciare” e “come potrà riequilibrare un bilancio che cambia”. Ma ancora nessuno lo ha quantificato con precisione.
Indubbiamente il Regno Unito è il paese più esposto ai rischi della Brexit sul PIL e sul reddito da lavoro, ma non sono esenti le regioni irlandesi, né la Germania meridionale, anche se quest’ultima lo è in maniera minore. Esiste anche un criterio legato ai collegamenti geografici commerciali, che vede aumentare la rischiosità per le regioni europee nord-occidentali, a differenza di quelle europee meridionali e orientali. Diversi studi utilizzano tabelle input-output globali per collegare il commercio al valore aggiunto (reddito e PIL).
Sulle implicazioni per i Paesi che resteranno nell’Unione, la letteratura sembra convergere in primo luogo sull’Irlanda, seguono i Paesi Bassi e, subito dopo la Germania, causa gli alti valori di esportazione che la caratterizzano verso il Regno Unito. Per l’Italia gli impatti sembrano trascurabili dal punto di vista della bilancia commerciale.
Il piano del ragionamento, quindi, ora si sposta su tutti coloro che esportano merci verso la Gran Bretagna e non su di lei che esporta merci verso gli altri. Perdonate il voluto gioco di parole, ma se tutti vogliono esportare in economia, modello considerato forte in ambito neoliberista, chi importerà? Per non trascurare le preoccupazioni legate alla circolazione dei lavoratori e al turismo britannico, dato che i termini concreti dei negoziati ancora non ci sono e da una prima fase a favore del resto dell’UE, non possiamo escludere che nella fase 2 la trattativa sposti l’asse a favore del Regno Unito.
Per non saper né leggere, né scrivere sul tema, intanto si avanzano ipotesi dai vertici europei di introdurre una tassa sul consumo della plastica. L’intenzione è nobile e rivolta alla tutela dell’ambiente, ma la sostanza è che entrerebbero soldi nelle casse europee, prive di almeno 10 miliardi l’anno, a Brexit effettiva. Per esempio, in tema di agricoltura e economia agraria, per diversi motivi, il Regno Unito ha rappresentato uno dei principali contributori netti nei versamenti al bilancio dell’UE e la sua uscita farà venire meno una quota di versamento che penalizzerà chi rimane, con la conseguenza di redistribuire l’inevaso o tassare.
Allora, la perdita del Regno Unito come importante partner e finanziatore delle politiche e dei programmi UE farà rispettare la data di uscita del 2019 o i negoziati slitteranno finché non sarà chiaro il reale costo a carico dell’UE?
Infine, e se poi come già da me evidenziato in precedenza, per il Regno Unito l’uscita dall’UE non fosse una catastrofe?
Maria Luisa Visione