Siamo nella settimana cruciale di un’emergenza sanitaria che è sfociata anche in emergenza economica severa e non ne avevamo ricordo finora, di entrambe.
Speriamo tutti, profondamente e con forza, ogni secondo ormai, prima del consueto bollettino, che quella curva di positività e di decessi si inverta, e sappiamo che quando torneremo alla normalità cambieranno il nostro modello socio-economico, il mondo del lavoro, la nostra socialità. Cambieremo noi.
Difficile disegnare uno scenario prospettico quando tutto il contesto è estremamente dinamico, per cui provo a mettere sul tavolo ciò che è oggettivamente riscontrabile, per dare una lettura chiara.
Riepiloghiamo i fatti economici salienti degli ultimi giorni.
La BCE, conscia di una struttura euro ormai in affanno, ha annunciato un nuovo quantitative easing di dimensioni significative: 750 miliardi di euro di titoli da acquistare per sostenere mercati finanziari e spread, virando sulla strada tracciata da Draghi del fare tutto ciò che sarà necessario, senza limiti.
La Commissione dell’Unione Europea ha attivato la clausola di salvaguardia del Patto di stabilità, rimuovendo temporaneamente i limiti all’azione dello Stato, i cosiddetti “aiuti” di Stato, consentendo ai Governi di spendere in deficit, senza tener conto del famoso 3%. Attenzione, non è un favore che fa all’Italia; è talmente chiaro che tutti i Governi dovranno spendere più di quanto incasseranno, vista la situazione di recessione che si prospetta, che cadono i muri per tutti.
Tutti i Paesi colpiti si stanno allineando su una politica di lockdown estesa ai settori non strategici; l’Italia lo ha fatto per prima. Questo comporterà l’arresto di tutte le industrie al di fuori dei settori farmaceutica, sanità, logistica, trasporti, energia e agroalimentare, per almeno 4 settimane, a mio avviso, ma sono ottimista.
La domanda che assilla molti è quante di quelle saracinesche e aziende riapriranno. Su questo la mia risposta è netta: devono riaprire tutte, lo Stato ha l’obbligo di intervenire e sostenerle economicamente senza perdere tempo a cercare criteri di efficienza. A Londra un mio amico barbiere ha chiuso da qualche giorno il negozio: riceverà dal governo inglese 10.000 sterline per sei mesi e non ha neanche il pensiero di come pagare la sua dipendente perché, sempre il suo governo, le pagherà l’80% dello stipendio.
Stessa politica va applicata a tutte le categorie di lavoratori che risultano danneggiate e impossibilitate ad andare avanti fino a quando siamo in emergenza sanitaria. Il perché è semplice: senza lavoro non c’è reddito, senza reddito non c’è consumo e i consumi sono una parte consistente del PIL.
Allo stesso modo alcune imprese e banche possono essere nazionalizzate. La Germania lo fa da sempre e fa intravedere tale tipo di percorso anche in questa circostanza. Non permettiamo che ci comprino le nostre aziende, sono il nostro patrimonio.
Cosa propone di concreto la politica europea comune in questo momento? Ci sono diverse alternative.
La prima: utilizzare i fondi dell’UE per le politiche di sostegno pubblico. Si stima, dai dati UE, un bacino potenziale fino a 10,5 miliardi per l’Italia ma la Due Diligence non è definitiva. Non si tratta di nuove risorse, ma di quelle già assegnate che sarebbero riprogrammate nell’utilizzo immediato.
La seconda: emettere Covibond utilizzando il Fondo Salvastati (MES). Non capisco, sinceramente, perché se la BCE può acquistare titoli per 750 miliardi di euro, non lo possa fare per 1.000 o per quanto serve per non far tenere sotto scacco Paesi come l’Italia sul fronte spread. Perché deve emettere i titoli il MES? Li possono emettere i singoli Stati dal momento che non c’è una politica fiscale comune, con la garanzia della BCE. Oppure la BCE emette eurobond a tasso zero senza ricorrere al MES, evitando il rischio che come contropartita domani dal MES chiedano lacrime e sangue ai singoli Stati per ristrutturare il debito pubblico.
La terza: creare un fondo straordinario di risorse per tutti i Paesi dell’UE come misura immediata per contrastare gli effetti economici negativi del virus, con la condivisione di tutti. La domanda è perché non esiste già? Se facciamo parte di un sistema comune europeo che dovrebbe fare rete in momenti così straordinari uno si aspetta che già esista.
Il mio pensiero è lineare. In questo momento non c’è una politica comune europea coesa e non possiamo perdere tempo. Quindi, gli Stati devono riappropriarsi del loro ruolo e salvare le loro economie.
I fatti hanno dimostrato che non si può non avere a disposizione risorse di Stato quando averli è salva vite e non si può non avere strumenti di politica economica e fiscale di fronte a un mostro distruttivo che riguarda tutti.
Alla fine di questa guerra, i più fragili avranno pagato di più, ma tutti saremo devastati. Mi sono restate in mente le parole al telefono di una persona che ho sentito oggi, che vive in una delle città più colpite: alcuni che hanno contratto il virus stanno tornando a casa, diversi. Ma tanti no.
Non dimentichiamolo domani quando dovremo ricostruire il nostro modello socio-economico di riferimento.
Maria Luisa Visione