Assente dal DEF 2023, pubblicato in questi giorni, la tanto ambita riforma sulle pensioni, un capitolo sempre oggetto di rivisitazione, a causa della necessità di mantenere i conti pubblici in ordine e rispettare il Patto di stabilità.
Nonostante la spesa per le pensioni rappresenti un argomento sensibile nella percezione di affidabilità del sistema pubblico del cittadino, nel DEF non si pongono le basi per una riforma strutturale innovativa, e l’analisi dei numeri fa presupporre che ciò accada, in quanto la coperta risulti corta e non si trovi la quadra per realizzare soluzioni che garantiscano quei principi di equità e modernizzazione, in grado di salvaguardare l’inclusione e la dignità della persona umana in pensione. Vediamo allora i numeri.
In primo luogo, si inserisce l’adeguamento degli assegni pensionistici derivante dal significativo incremento del tasso di inflazione registrato, a partire dalla fine del 2021 e previsto fino al 2023. In particolare, a causa dell’impatto inflattivo, la spesa per pensioni aumenterebbe del 7,1% nel 2023 e nel 2024, e del 3,1%, in media, nel periodo 2025-2026.
Poi ci sono gli effetti sulla spesa degli anticipi pensionistici del recente passato, a partire da Quota 100, che ha nel triennio 2019-2021 favorito il ritiro dal lavoro con un’età anagrafica di almeno 62 anni e un’anzianità contributiva di almeno 38. A tali effetti, in maniera più contenuta, essendo misure annuali, partecipano nel 2022 Quota 102 (64 anni di età e 38 anni di contributi) e Quota 103 (62 anni di età e 41 anni di contributi), in corso fino a fine 2023.
In sostanza, a partire dal 2018, il rapporto tra spesa pensionistica e PIL nelle pagine del DEF si muove lungo un trend di crescita, che si protrae per circa un ventennio. Attenzione, però, dal 2019 al 2020 la spesa pensionistica raggiunge il 16,9%, per poi ridursi; cioè, dopo il boom iniziale di Quota 100, si porta al 15,6% nel 2022, e ciò porta alla conclusione che favorire una più rapida uscita dal mercato del lavoro, comporti un aumento del numero di pensioni in rapporto al numero di occupati attuali, che mina la futura sostenibilità del sistema.
Quando è previsto, dunque, che il rapporto tra spesa pensionistica e PIL decresca progressivamente? Esattamente al 2040.
Cosa potrebbe aiutare oggi per poter destinare maggiori risorse alle pensioni? La crescita del PIL e l’aumento dell’occupazione. Ma le previsioni del PIL non si muovono dall’1,1% annuale in media, anche nello scenario favorevole, da qui al 2070.
Inoltre, l’impatto favorevole del sistema contributivo per tutti lo vediamo solo molto avanti nel lunghissimo periodo, nella fase finale del periodo previsionale, al pari degli adeguamenti alla speranza di vita.
In parole semplici, con questi numeri è difficile aspettarsi una riforma pensionistica che risponda alle varie promesse elettorali, sempre semplicistiche, o meglio, è solo la crescita del PIL che potrebbe influenzare modifiche legislative che consentano flessibilità in uscita, pur dovendo rinunciare a una parte dell’assegno.
Il sistema pensionistico sembra lontano dall’apparire equo, se consideriamo i bassi coefficienti di trasformazione attuali, piuttosto che la differenza salariale tra uomini e donne, che penalizzano quest’ultime, o il costo elevato del riscatto di laurea per molti, che diventa poco accessibile. Per non parlare della riforma Opzione Donna, che ha subito diverse restrizioni quest’anno non favorendo proprio la platea femminile.
In conclusione, il capitolo pensioni è fermo, per adesso.
Ragione che dovrebbe portare ogni cittadino a richiedere quanto prima un’analisi previdenziale personalizzata.
Maria Luisa Visione