Come il lavoro ritrova il proprio significato, ai tempi del virus

Sarà servito a qualcosa, questo caos mondiale scatenato dal virus?
Credo di sì. Sarà servito, di certo, a quello che i nostri padri costituenti misero al primo posto fra i fondamenti della costituzione: il lavoro.

Alla fine, solo il lavoro sembra salvarci.
Ora sarà più chiaro, a causa del virus e probabilmente anche per l’inettitudine di chi decide, che il lavoro manca proprio quando non c’è.
E proprio quando non c’è la gente è triste (e non soltanto per la questione economica): più di un campionato non giocato, di una vacanza saltata, di un guadagno effimero, di un momento labile.
Il lavoro.
Il suo sapore ed il suo odore. La sua adrenalina ed il suo gusto, dolce amaro che ti fa alzare ogni mattina. Che ti fa accettare sfide e sconfitte perché poi, il giorno dopo, si riparte e anche il momento più buio sarà dimenticato.
Il lavoro che manca. Il lavoro che vorresti che ci fosse, come un padre, come la cosa più bella che hai.
Quando invece, proprio perché ora non c’è, cambi i tuoi programmi, la tua vita, le ambizioni della tua famiglia ed il futuro dei tuoi figli.
Il lavoro, appunto.
Quello che non conosce orari, non conosce luoghi, non conosce sacrifici, non conosce viaggi: quello che però ha presente il futuro. Non tuo: magari quello di due occhi che ti guardano e che hanno il diritto di sognare come hai fatto tu.
Ecco, proprio qui sta il punto.
Il lavoro che è stato mercificato, sotterrato, deriso e che adesso, per una vera ricostruzione, deve invece acquistare tutta la sua preponderanza rispetto a chi, di lavoro, se ne infischia , preferendo rendite o speculazioni.
Il lavoro dell’articolo uno della nostra Costituzione.
Il lavoro degli italiani.
Viva il tricolore.

Luigi Borri