Molte sono le considerazioni che a vario titolo scaturiscono sui possibili effetti innescati dall’aumento dello spread sui Titoli di Stato italiani. Vorrei chiarire alcuni punti.
Il primo riguarda l’impatto del rating di tali titoli sul sistema bancario italiano rispetto alle operazioni di rifinanziamento presso l’Eurosistema, necessarie a garantire liquidità. Esiste un’unica ipotesi in cui le nostre banche si troverebbero nella condizione di non poter più mettere i Titoli di Stato italiani a garanzia per ricevere denaro, ed è quella in cui, contemporaneamente, il rating delle 4 agenzie DBRS, Fitch Ratings, Moody’s e Standard & Poor’s si portasse al di sotto del livello investment grade (BBB-). Così come l’Eurosistema, a quel livello, non potrebbe più acquistare tali titoli. Unica eccezione all’applicazione della suddetta regola è il caso in cui lo Stato venga sottoposto a un programma di assistenza finanziaria dell’Unione Europea, del Fondo Monetario Internazionale e della BCE, e rispetti tale programma (Indirizzo BCE/2014/31).
Il secondo punto è in relazione al costo del debito per le finanze pubbliche che diventa più oneroso se i rendimenti dei Titoli di Stato salgono. Come riporta Banca d’Italia, negli ultimi sei mesi, la spesa per interessi sui titoli pubblici è cresciuta di quasi 1,5 miliardi di euro e, in previsione, se perdurassero le aspettative, sarebbe di oltre 5 miliardi nel 2019 e 9 miliardi nel 2020.
Il terzo punto attiene il costo della raccolta delle banche e il loro livello di patrimonializzazione e, quindi, la stabilità finanziaria. Attingendo alla stessa fonte si apprende che, analizzando gli anni 2010-11, 100 punti base in più sullo spread dei titoli pubblici decennali, possono portare le banche a pagare circa 40 punti base in più sui tassi di interessi dei depositi e fino a 100 punti base sulle nuove emissioni obbligazionarie. Inoltre gli stessi 100 punti in più si traducono in una riduzione del rapporto tra il capitale di migliore qualità e le attività ponderate per il rischio (CET1) di 50 punti base in media (40 per le banche significative, 90 per quelle meno significative).
Il quarto aspetto riguarda l’aumento dei tassi di finanziamento applicato a famiglie e imprese attraverso lo spread creditizio. Non c’è una correlazione diretta tra aumento dello spread dei titoli pubblici e tassi di interesse su finanziamenti e mutui. Accade, però, che le banche, trovandosi nella condizione di dover innalzare il costo della raccolta, per avere margine, decidono di aumentare lo spread creditizio sui tassi Euribor e IRS, applicati ai nuovi mutui. Tale meccanismo di trasmissione per ora non c’è stato nel terzo trimestre del 2018, ma non possiamo escluderne l’innesco. La stima dell’aumento per un trimestre è di 70 punti base per i prestiti alle imprese e di 30 per i mutui alle famiglie, ogni 100 punti in più di spread BTP/BUND.
In conclusione:
Il rating dei nostri titoli pubblici è attualmente al di sopra dell’investment grade.
L’Eurosistema per adesso non chiuderà il rubinetto, ma aumentano gli oneri di approvvigionamento per chi possiede tali titoli e li deve dare a garanzia e si riduce la liquidità delle banche.
L’aumento del costo dei finanziamenti non è immediato, ma riflette il fatto che le banche devono pagare di più per avere raccolta.
Ad oggi non si intravedono impatti considerevoli sul patrimonio delle banche italiane significative promosse agli stress test.
Maria Luisa Visione