Rimuovere il divario di genere è un obiettivo cruciale per il nostro Paese e in questa direzione un primo passo importantissimo è stato fatto finalmente con l’approvazione recentissima della legge sulla parità di retribuzione (Modifiche al codice di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, e altre disposizioni in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo).
Argomento sul quale, pur essendo passati ben 73 anni dalla nascita della nostra Carta Costituzionale, che ha affermato parità di diritti, di lavoro e di retribuzione per ogni singolo lavoratore, la realtà dei fatti ci racconta tuttora una mancata attuazione di principi e valori rappresentativi dell’uguaglianza sostanziale.
La legge sulla parità retributiva ha insita un’importante novità: la sistematica raccolta dei dati effettivi sulla situazione lavorativa delle donne per le aziende pubbliche e private con oltre 50 dipendenti, con la conseguente messa a disposizione sul sito internet istituzionale del Ministero del Lavoro dell’elenco delle aziende che hanno tramesso il rapporto da redigere ogni due anni, riguardante tutto il personale (sia uomini che donne).
Si passa dunque dalla verifica, dalla messa a nudo delle retribuzioni reali, senza addentrarsi più in luoghi comuni e preconcetti vari, iniziando dall’evidenza di chi redige il rapporto e di chi non lo fa, fino ad arrivare a rendere pubblico se l’azienda, di fatto, fa discriminazioni di genere oppure no. Infatti, l’ambito di applicazione dei dati richiesti è piuttosto esteso: salari, organizzazione, criteri di assunzione, opportunità di carriera, inclusività e conciliazione di tempi di lavoro e spazio familiare.
Il riferimento è alla cosiddetta “discriminazione indiretta”, quando, cioè si detta una regola neutra, ad esempio sull’orario di lavoro, senza tenere in considerazione l’impatto diverso per chi ha figli piccoli e deve portarli al nido o a scuola. Quest’ultimo aspetto è di natura culturale, si sposta sugli impegni familiari, spesso a carico delle madri per cui i numeri ci raccontano che, a parità di inquadramento lavorativo, dopo 20 anni, permane sempre una differenza del 20% sulla retribuzione tra una donna che ha avuto un figlio e un collega uomo. Maternità che crea una situazione di svantaggio non ammissibile.
La legge è passata all’unanimità mostrando un primo orientamento concreto a rimuovere gli ostacoli che impediscono di fatto la partecipazione equa al lavoro delle donne. Da qui è auspicabile una serie di nuovi interventi normativi che vadano nella direzione di combattere concretamente le molteplici differenze di trattamento presenti nelle diverse aziende, senza minimizzarle, ma dando in mano a chi può essere discriminato strumenti concreti per combattere il differente trattamento, a tutti i livelli e su tutte le dimensioni.
Una questione di giustizia e di economia buona, perché dal reddito dipende non solo la possibilità di realizzare obiettivi e progetti, ma anche quella di costruire le tutele sulle quali veniamo responsabilizzati tutti dall’attuale sistema di welfare.
Maria Luisa Visione
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