La riforma delle banche popolari
Siamo nel 1864, in un contesto socio-economico caratterizzato dall’impegno sociale a favore della crescita delle comunità locali e dal legame con il territorio, quando in Italia nasce la Banca Popolare di Lodi, primo esempio di modello bancario di governance, in cui prevalgono identità cooperativa e mutualità.
Proprio la creazione di rapporti stretti e duraturi con il tessuto sociale e imprenditoriale consolida l’immagine positiva e favorisce lo sviluppo dimensionale delle banche popolari. Finché, nel 2015, il legislatore interviene modificando il TUB del ’93, causa l’ormai inadeguatezza del modello popolare, legato all’assetto proprietario e alla governance (limite di possesso del capitale, voto capitario e partecipazione assembleare) con l’esercizio di attività bancaria di grandi dimensioni.
La variabile di riferimento per determinare quali banche devono cambiare, trasformandosi in S.p.A. è il valore-soglia del totale dell’attivo, stabilito in 8 miliardi di euro. Discriminante che incide sulla complessità e sulla rilevanza dell’intermediario, ai fini della stabilità del sistema finanziario. Il legislatore è perentorio: superato il limite, scatta la convocazione dell’assemblea da parte del Cda per determinare il cambio societario. Se, in alternativa, non si riduce l’attivo entro l’anno, Banca d’Italia potrà o, vietare nuove operazioni o, proporre alla Bce la revoca dell’autorizzazione dell’attività bancaria e al Mef la liquidazione coatta amministrativa. La riforma applica le norme comunitarie Capital Requirements Regulation (CRR) e Capital Requirements Directive (CRD IV), che consentono di limitare il rimborso per chi esercita il diritto di recesso, facendo prevalere la salvaguardia del limite di capitale della banca che si trasforma, sul diritto del socio.
La sospensione cautelare del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato ha sospeso, in via cautelare, la circolare B.I. attuativa della trasformazione delle banche popolari in S.p.A., rilevando profili di legittimità costituzionale in materia di lesione dei diritti dei soci. In particolare, si contesta la possibilità di limitare o escludere il diritto al rimborso delle azioni nei confronti dei soci – anche in deroga a norme di legge – che, a seguito di trasformazione, decidano di esercitare il recesso, “senza differirlo entro limiti temporali predeterminati e con previsione di un interesse corrispettivo”.
Lo stato dell’arte
La maggior parte delle dieci banche popolari italiane interessate hanno già deliberato la trasformazione societaria; Ubi ha già soddisfatto, anche se solo parzialmente le richieste di rimborso, mentre Popolare di Vicenza e Veneto Banca potrebbero non sborsare nulla. Ancora in corso Popolare di Milano e Banco Popolare, nonché Bper e Creval; Banca Popolare di Sondrio e di Bari si apprestano all’approvazione assembleare. In ogni caso chi vuole completare il processo dovrà farlo entro la fine dell’anno e, potrà farlo, stante la disposizione del Consiglio di Stato.
Si apre quindi il dibattito su come equiparare i diritti di chi ha già esercitato il recesso e su chi lo farà. Da una parte ci sono i costi del sistema per il rimborso dei soci; dall’altra la tutela del risparmio di chi ha creduto e sostenuto il modello popolare. Ancora una volta, riduzione dei rischi sistemici e diritti di risparmiatori, azionisti o investitori a confronto.
O, magari, l’occasione di riaffermare il rispetto del diritto di essere a servizio del territorio.
Maria Luisa Visione