Metti di prendere il caffè della mattina sentendo parlare di recessione tecnica e di accorgerti di come, rispetto a un po’ di anni fa, il linguaggio economico sia diventato parte della quotidianità anche dei non addetti ai lavori.
Meno di 11 anni fa, nel 2008, l’arrivo della crisi finanziaria internazionale sembrò un bombardamento senza vincitori, né vinti. Allora la percezione era di un riflesso inevitabile di ciò che accadeva nel resto del mondo. In quell’anno il protagonista oggi indiscusso nei discorsi di chi sta cercando di capire cosa succederà, segnava una flessione dell’1,05%. Sto parlando proprio di lui, il PIL reale, il responsabile della recessione tecnica, la crescita che per due trimestri consecutivi nel 2018 ha segnato un andamento negativo, tanto da riportarci all’interrogativo: “Quindi la crisi non è finita?”.
A quel tempo non c’era la percezione di una crisi persistente come c’è oggi, basta pensare al fatto che il -5,48% del PIL italiano del 2009, dato veramente negativo, è passato più in sordina della flessione attuale (o, forse, l’abbiamo dimenticato). Ma cerchiamo di capire perché andò così male.
Il PIL (prodotto interno lordo) rappresenta l’insieme dei beni e servizi finali prodotti all’interno di un Paese nell’arco di un anno e, tecnicamente, si ottiene sommando il valore della spesa fatta dalle famiglie per i consumi; dalle imprese per gli investimenti; dallo Stato per consumi, stipendi e investimenti pubblici e, infine, il saldo commerciale estero, cioè la differenza tra esportazioni e importazioni, che sta ad indicare, appunto, che i nostri prodotti sono acquistati dal settore estero. In pratica se il PIL cresce vuol dire che siamo in salute e che si spende.
Sia nel 2008 che nel 2009 il crollo di produzione italiana dipese dalla minore domanda di beni dall’estero. La componente estera incise anche l’anno successivo, nel 2010 quando, invece, ci fu la ripresa. Ma la sperata ripresa non durò a lungo. A parte una piccola risalita subito dopo, nel 2012 siamo stati ancora negativi, per riportarci in positivo dal 2014 al 2017, con numeri, tuttavia, sempre al di sotto del 2%.
La verità è che non eravamo abituati a tanta decrescita; basta guardare il periodo che va dal 2000 al 2007, sempre positivo. E per comprendere perché per molti la crisi non è mai finita basta calcolare la media delle variazioni del PIL dal 2007 al 2017, che è pari a -0,51%: negativa, appunto. A riprova che, in media, sono stati dieci anni difficili.
Tornando al caffè al bar dell’economia reale, la sensazione “verità” che resta riguarda le politiche non in grado di espandere la domanda (capacità di spesa) al fine di utilizzare al meglio, in modo completo e efficiente, tutti i fattori produttivi a disposizione. In grado cioè di generare reddito e ricchezza.
Quando l’Istat tuona che c’è odore di recessione, ognuno di noi capisce che in futuro si potrà aspettare maggiore disoccupazione, minore produttività, meno consumi e, di certo, meno accesso al credito.
Questo crea un volano in termini di fiducia molto negativo. Non sempre non spendiamo i soldi perché non li abbiamo in tasca. Più aumenta l’incertezza, più sentiamo la necessità di non spendere.
L’economia reale ripartirà quando ci saranno politiche che espandono la domanda: crescita dei salari; investimenti pubblici; maggiore produttività grazie all’innovazione; accesso al credito alle nuove attività per crescere; politiche di sostegno al reddito capaci di moltiplicare i consumi; riduzione del cuneo fiscale alle imprese, mai arrivata.
Per prendere finalmente un caffè al bar al suono di un’azienda che nasce e di negozi che aprono in città per riscoprire il meraviglioso made in Italy.
Maria Luisa Visione
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