Economia

Il lavoro a tempo indeterminato non c’è

E’ appena trascorsa la giornata in memoria di una conquista che aveva abbattuto frontiere territoriali e sociali tra i popoli, legandoli in maniera imprescindibile: quella del limite legale delle ore lavorative giornaliere.
Ma oggi, il diritto al lavoro come condizione essenziale per la realizzazione della dignità nella società, risponde a quanto ci restituiscono le statistiche?
Dall’ultimo dato, pubblicato dall’Osservatorio sul precariato Inps, i primi due mesi di rilevazione del 2017, rispetto all’anno scorso, evidenziano:
▪ minore attivazione di contratti a tempo indeterminato (calo del 12,7%);
▪ aumento del 30% dei licenziamenti disciplinari nelle aziende con più di 15 dipendenti;
▪ saldo tra assunzioni e cessazioni del settore privato superiore al 2016 di 29.000 unità (di 33.000 unità inferiore, invece, al 2015);
▪ contrazione delle dimissioni.
Una fotografia interessante, che fa emergere l’aumento tendenziale delle assunzioni, soprattutto di quelle a tempo determinato e degli apprendisti e, al contempo, due effetti diversi: quello del Jobs Act di lasciare più facilmente a casa i lavoratori per giusta causa e giustificato motivo soggettivo e quello della minore propensione a presentare la rinuncia al lavoro (oggi on-line, obbligatoriamente).
Tuttavia le maggiori auspicate trasformazioni a tempo indeterminato non ci sono, sostituite da variazione assoluta negativa sia di rapporti a termine (-5.453 unità), che di apprendisti (-3.924 unità).
A completare il quadro è il tema delle retribuzioni iniziali dei nuovi rapporti di lavoro: si registra, per le assunzioni a tempo indeterminato, una quota di retribuzione mensile inferiore a 1.500 euro.
Il caro vecchio lavoro a tempo indeterminato, in ogni caso, lascia il passo. Forse perché non sembra in grado di interpretare l’attualità o, semplicemente, perché non si tratta più e soltanto di conquistare un orario che tuteli i diritti del lavoratore. Si tratta di spiegare perché nella graduatoria dell’UE, relativa al 2015, solo la Grecia ha un tasso di occupazione inferiore a quello dell’Italia. Si tratta di prendere atto che non abbiamo abbattuto le nostre frontiere e rimangono forti le differenze nel Mezzogiorno. Si tratta di comprendere perché ancora, in Italia, solo una donna su due lavora, quando in Paesi come la Svezia risultano occupate il 78,3% delle donne tra 20 e 64 anni. Si tratta di trovare misure che riducano i 20 punti percentuali che ci separano dal primo classificato dell’Ue: nel 2016, infatti, in Italia, risultano occupate in media poco più di 6 persone su 10 (61,6% – fonte Istat “Noi Italia 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo”).
Si tratta, appunto, di capire il Paese in cui viviamo e decidere quale Paese vogliamo.
In memoria di un diritto al lavoro che oggi, evidentemente, non è riservato in eguale misura e condizioni a chi vorrebbe lavorare e, per il quale, occorre interrogarsi.
E quando si apprende, per esempio, che l’importo medio delle pensioni liquidate nel primo trimestre per i lavoratori dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa è di circa 223 euro, non dimenticare che il futuro, dipende sempre dalle scelte del presente.
Se siamo liberi di scegliere.

di Maria Luisa Visione

Francesco Laezza

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