Non è colpa mia se sono curioso e non è nemmeno colpa mia se per sgrezzare la mia pietra della conoscenza spesso ho l’abitudine di girovagare in rete in cerca di novità nel mondo dell’economia.
Ma tant’è: in uno di questi percorsi (spesso notturni) – di regola ospitati in pause “riflessive” durante i miei viaggi ed il mio lavoro- mi sono imbattuto in The Industries of The Future, Il libro di Alec Ross (edito da Feltrinelli e ad oggi uno dei titoli con maggiore gradimento di questi ultimi mesi).
L’ho scorso con dubbio, poi con estremo interesse e dopo un po’ l’ho trovato semplicemente geniale, sia per spunti che per lungimiranza: geniale perché rispetto alla trattazione di un tema (l’industria del futuro appunto) estremamente ostico e di difficoltà d’approccio immane si pone in maniera semplice e comprensibile, senza sofismi e senza atteggiamenti cattedratici.
In pratica Ross ci dice che il mondo negli ultimi vent’anni è stato segnato in maniera significativa dalla digitalizzazione e da Internet, e le persone, i governi e le aziende che l’hanno capito per tempo, sono stati i vincitori, anche economici, di quest’epoca. Quelli che non l’hanno capito sono i perdenti.
Rifletto su questa teoria (anche perché i miei rapporti con la rete sono iniziati nel 1996, complici i miei continui rapporti con il mercato statunitense), mi convinco della sua bontà (il lavoro è andato là dove si è investito su internet, in sintesi) ed il mio pensiero va all’Italia : agricoltura, industria, terziario di buon livello ma ben poco a livello di applicazione digitale sul processo. Non è stato capito, cioè, il potenziale del digitale ed è stata perso il primo treno che portava alla stazione dello sviluppo.
Ma non è finita. La creazione di lavoro e di ricchezza, a mio modo di vedere, anche per i prossimi vent’anni sarà guidata dall’innovazione.
I Paesi che creeranno le precondizioni necessarie, un mercato del lavoro flessibile, una società più aperta, saranno la guida per i processi di innovazione. Puoi investire tutti i soldi che vuoi in tecnologia innovativa, ma se la tua società è chiusa, non funzionerà. Prendi la Russia: hanno speso molti soldi per implementare quella che pensavano sarebbe diventata la loro Silicon Valley, Skolkovo, ma il progetto non è decollato. Non sono mancati né i soldi né il sostegno del governo; è mancata una cultura, un ecosistema che consolidasse l’innovazione. Dall’altra parte, prendi la Corea del Sud, uno dei grandi innovatori del mondo; lì trovi un ambiente molto aperto che rende facile fare impresa in questi campi più avanzati.
Per quel che riguarda il lavoro, il tema è complicato, non ci sono dati certi o prove evidenti. È una storia che si ripete: a inizio del ‘900 assistemmo alle proteste contro l’invenzione dei telai perché toglievano lavoro a chi intrecciava a mano; cent’anni fa, in America, il 40% dei lavoratori erano agricoli, oggi sono il 2%, ma i posti di lavoro totali sono di gran lunga aumentati, per non parlare di come è migliorato il sistema agricolo.
Il grande tema sarà quindi favorire questo processo, creare le condizioni affinché le nostre aziende (manifatturiere in primis) possano svilupparsi investendo in rete innovazione e nuovi sistemi: come? Magari detassando gli investimenti o creando un sistema premiale per chi inizierà (o implementerà) questo percorso. Dovrà essere però il nostro governo il primo a crederci creando un sistema Italia snello, reattivo, lontano dalla burocrazia e fuori da pastoie e sistemi servili e di lacchè. Scelte coraggiose si impongono perché altrimenti saremo sempre spettatori della ripresa.
Il premier Renzi, in questo aiutato dalle coscienze risvegliate da una forte opposizione (populista, ma critica) ha tracciato i primi timidi tentativi in tal senso: è doveroso proseguire in maniera forte e vigorosa.
Tanti auguri, Italia….
Luigi Borri
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