L’immagine sobria della bandiera britannica che viene tolta dalle altre 27 e piegata con cura ha diviso i favorevoli dai contrari evocando per una parte orgoglio e patriottismo, per l’altra tristezza, e anche facile ironia sul destino del Regno Unito fuori dall’UE.
Immagine più forte, quella della bandiera, a mio avviso, dei festeggiamenti della notte del 31 gennaio che rimarranno alla storia come l’istantanea di una nuova liberazione; in sottofondo i colori bianco, rosso e blu, le lacrime di gioia e la speranza.
Al di là dei facili pronostici e di alcuni commenti irriverenti verso l’applicazione della scelta democratica di un popolo, nessuno sa con certezza gli esiti di questa decisione. Ma credere che chi ha deciso non abbia valutato, a tavolino, tutti gli scenari, è quantomeno ingenuo.
Il Regno Unito pesa nel commercio internazionale in modo importante: nel 2018 ha importato dall’UE per il 53% ed esportato per il 47%; in entrambi i casi, in pole position c’è la Germania, seguono Paesi Bassi e Francia.
Ricordiamo che il contributo del Regno Unito al bilancio europeo nel 2018 ha visto l’economia britannica seconda all’economia tedesca.
Abbiamo visto fare gli scatoloni a tre giudici britannici della Corte di Giustizia Europea, 73 eurodeputati e alla maggior parte dei 67 assistenti parlamentari. Fino al 31 dicembre 2020 vigerà il periodo di transizione per consentire a tutti di adeguarsi mantenendo le norme del diritto europeo; in parallelo UE e Gran Bretagna definiranno i futuri rapporti. Un’uscita ordinata, dunque.
Nel discorso di addio di Farage mi ha sorpreso la lucidità nell’aver evidenziato il vero problema della disaffezione di molti all’Unione: il disallineamento tra l’economia e la politica, regole che delineano meticolosamente i bilanci dei Paesi di semestre in semestre, dimenticandosi dei diritti sociali, perché applicano prima burocrazia, potere politico e logica di mercato, anziché la ragione dell’Europa dei popoli.
Ciò che scrivo è talmente evidente guardando al primo effetto che è di natura politica e non economica o finanziaria: in assemblea parlamentare con l’uscita della Gran Bretagna avanzano i partiti di destra, senza mettere a rischio la maggioranza popolare-socialista-liberale. Il periodo di transizione non modifica i diritti dei cittadini britannici che vivono all’interno dell’Unione, né quelli dei cittadini europei che vivono in Gran Bretagna e credo che dopo a nessuno converrà non trovare le giuste intese, lasciando nel caos mercati e frontiere.
Il vero dato, rivoluzionario secondo il mio punto di vista, è che tra qualche anno avremo modo di comparare i numeri prima e dopo, e solo a seguito delle cifre valutare oggettivamente effetti ed esiti. Oggi dobbiamo prendere atto che quanto veniva ritenuto impossibile fino a qualche anno fa, il 31 gennaio 2020 è accaduto perché ha prevalso la voce di chi ha chiesto di cambiare le cose riprendendo in mano politica fiscale, politica economica e politica sociale, senza accettare inesorabilmente il presente.
A quella voce va il mio più profondo rispetto e non riesco ad esimermi dal pensiero di tutta la sofferenza del popolo greco di questi anni, della quale nessuna intera pagina di giornale ha parlato, perché, in questo caso, abbiamo accettato che la soluzione fosse l’austerità a tutti i costi.
La Gran Bretagna, rispetto alla Grecia detta l’economia nel mondo, non ha paura di rimanere sola, paradossalmente alle banche che hanno chiesto di più potrebbe dire sì, perché oggi ha in mano la politica fiscale del suo Paese e non deve aspettare l’ok di Bruxelles.
Ma se il nuovo futuro funzionerà per lei, allora si apriranno le porte!
Maria Luisa Visione