Si chiama Robo advice ed ha cominciato a muovere i suoi primi passi già nel 2017 nelle due versioni B2C, ovvero business to consumer e B2B, business to business. Non è un omino robotico con cui relazionarci, ma una piattaforma digitale: B2C è destinato ai consumatori, B2B ai consulenti, ed entrambi esplorano in versione ibrida le nuove frontiere della consulenza automatizzata, coniugando l’elemento umano con quello tecnologico (Quaderno n. 6 Consob).
Sembra, infatti, che sia proprio quest’aspetto, affiancare al canale digitale l’interazione con un “assistente” fisico, utile al bisogno, da chiamare prima e dopo l’investimento, ad aver avuto successo nell’ambito dello sviluppo della consulenza automatizzata.
C’è, però, un altro fattore che va osservato, cioè, la predilezione o bassa disponibilità a pagare per ricevere il servizio di consulenza, che emerge come primo elemento di selezione nel processo decisionale dell’investitore italiano e che prevale in presenza di bassi patrimoni.
In Italia non sono i Millenials, come accade a livello internazionale, ad orientarsi verso i robo advisor, ma prevalentemente uomini tra i 40 e i 60 anni, di reddito medio-alto e familiarità con le scelte di investimento, confidenti, dunque nel non aver bisogno di un esperto per decidere in campo finanziario. Aspetto che fa gioco con il fatto che ben il 40% degli investitori italiani preferisce affidarsi solo ai consigli di amici, parenti e colleghi, ovvero operare in autonomia.
Si tratta, per dovere di cronaca, di dati ancora non esaustivi, in quanto il campione di riferimento statistico ha come base una ancora bassa diffusione del servizio. Ma ci fanno riflettere.
Stiamo chiudendo l’anno con un’ennesima crisi di fiducia verso il sistema finanziario, leggiamo di risparmiatori truffati e di record di licenziamenti che tutte le banche del mondo stanno annunciando e, se andiamo sul sito della Consob, quasi ogni giorno ormai si apprende di chiusura di siti per abusivismo nel settore finanziario.
Il mercato italiano stima che nel 2019 i robo advisors gestiranno più di 400 milioni di dollari, con un patrimonio medio pari a poco più di 12 mila dollari per cliente; mercato che crescerà a livelli sostenuti del 51% da qui al 2023.
A ben guardare è come se si delineasse una strada, la rotta robo advice che con le basse soglie patrimoniali di accesso e i costi contenuti raggiunge un’ampia fascia di persone, unica richiesta: “fidarsi” della piattaforma digitale.
Nella percezione dei partecipanti ai focus group oggetto dell’indagine Consob contenuta nel recente quaderno dedicato al Fintech, mi colpisce molto come l’aspetto emozionale legato al timore della mancanza di un riferimento umano stabile nel tempo e alla paura di non avere auto-controllo e sufficienti conoscenze finanziarie, si alterni e venga superato dall’attrattività per l’oggettività del consiglio, per il monitoraggio continuo e automatizzato e per la comodità di poter decidere in autonomia, senza discutere, del servizio robo advice. Mi colpisce perché questo atteggiamento proviene soprattutto da chi è stato deluso da precedenti esperienze di consulenza.
L’avanzata costante dei robo advisor dimostra che è già partito un treno su cui in diversi saliranno, senza aver ricevuto alcuna educazione finanziaria, un treno che non indirizza verso un modello di pianificazione delle risorse strutturato, ma che pretende di risolvere problemi immediati senza aver analizzato le cause e definito obiettivi e priorità.
Dare strumenti per rendere accessibile la cultura finanziaria è una sfida che tutti i governi, di tutto il mondo, dovrebbero raccogliere, facendo rete con gli operatori del sistema.
Una sfida, che non va d’accordo necessariamente con il business e le mode, forse nemmeno sempre con i costi, perché bisogna essere disposti a spendere per educare finanziariamente, sapendo che la conoscenza è la prima forma di tutela del risparmio perché restituisce consapevolezza.
Una sfida che non dipende da quanto patrimonio si ha e che cammina con la fiducia.
Maria Luisa Visione
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