Rimbalza la notizia dell’emendamento alla Legge di Bilancio 2018, che introduce la possibilità di cedere immobili del demanio a Stati esteri. Si fa riferimento all’applicazione della Finanziaria del 2005, ma, in realtà, la c.d. privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico ha origini ben più lontane.
Tralasciando il periodo post-unitario, il processo di dismissione del demanio parte dagli anni ’90. Viene introdotto gradualmente un complesso di norme, orientato a classificare i beni pubblici in “beni necessari alla collettività” e “beni alienabili”. In altri termini, si definirà nel tempo una separazione netta tra la finalità pubblica o interesse generale riveniente nell’art. 822 del codice civile (beni che rispondono a dirette esigenze della collettività) e gli interventi del legislatore, atti a facilitare e incrementare le dismissioni per reperire nuove risorse finanziarie e assolvere alle esigenze di cassa dello Stato. Nell’ultimo ventennio si è ribaltato un secolo: siamo passati dal principio unico e sovrano della vendita all’asta non presidiato dal diritto europeo, alla proliferazione di deroghe a favore della trattativa privata.
Voglio sottolineare in questa direzione come, con il decreto 351/2001, sia prevalso l’obiettivo, imposto dal Patto europeo per la stabilità e la crescita, di ridurre nel più breve tempo possibile l’enorme indebitamento pubblico, attraverso l’inserimento della disciplina relativa alla privatizzazione, mediante cartolarizzazione del patrimonio immobiliare pubblico. Si tratta di un trasferimento a titolo oneroso di beni immobili e proventi a società veicolo (per la gestione) che emettono titoli allo scopo di reperire i soldi da versare in pagamento. In sostanza, il preludio di un concetto di finanziarizzazione applicato al demanio molto distante dall’indirizzo del passato e dalla nostra Costituzione.
Entrare in ulteriori dettagli tecnici, comprensibili solo da esperti del settore, non occorre. Ma diventa importante comprendere di quali valori si stia parlando. Il patrimonio immobiliare pubblico ammonta a circa 60 miliardi di euro; attualmente, sono disponibili per la vendita 2,3 miliardi, 16.263 unità del valore medio di € 140.000. Nella previsione della legge di Bilancio alla voce “Alienazione ed ammortamenti di beni patrimoniali e riscossione dei crediti”, infatti, troviamo in milioni di euro i seguenti valori: 2.511, per il 2017; 2.504 per il 2018 e 2.499 per il 2019.
Tuttavia, esiste una grande differenza tra custodire, valorizzare il patrimonio di cui si dispone, e venderlo. Occuparsene, significa tutelare il valore della ricchezza; venderlo avere un’entrata immediata.
Ormai, siamo arrivati al punto di svendere la nostra storia per seguire le regole di bilancio. Personalmente ritengo inaccettabile tutto ciò. Abbiamo sostituito alla salvaguardia dei beni della collettività la regola del più forte. Il più forte vince sempre solo per il mercato. Mi chiedo, ma se domani ci faranno un’offerta stratosferica per acquistare il Colosseo, saremo disposti a cambiare ancora le regole e a venderlo, nel nome del pareggio di bilancio? Siamo spenti e abbiamo gli occhi chiusi. Il nostro patrimonio non può essere una questione di conti che non tornano.
In Giappone il rapporto debito pubblico/PIL è più del 200%, in Nigeria meno del 15%. Eppure quest’ultima è ai primi posti nella classifica mondiale dei paesi più poveri.
Maria Luisa Visione