Mi chiedo perché molte persone ancora credono che l’economia sia una “scienza” lontana dalle loro vite.
Eppure, oggi, rispetto a 10 anni fa, termini come PIL, deficit, legge di bilancio, DEF, inflazione, occupazione, spread, risuonano costantemente nei discorsi, sui social, in tv, sui giornali o in streaming. Tutti siamo chiamati, apparentemente, a cercare di comprendere il linguaggio economico e tecnico che, di fatto, si veicola come sapere diffuso. Insomma, viviamo in un costante clima di incertezza, rincorrendo una soluzione che sembra non arrivare mai. La manovra funzionerà? Che farà Fitch tra 4 mesi, manterrà il rating dell’Italia a BBB? E Moody’s il 15 marzo, lo taglierà ancora? La Commissione Europea a giugno come giudicherà i nostri conti pubblici?
Sono solo alcune delle domande che continuano ancora a interpellarci, nei governi vecchi e in quelli nuovi, ma il punto è che, da troppo tempo, non sappiamo mai cosa potrà succedere domani. Insomma, se sai con certezza che fine fai, ti organizzi, provi a studiare una contromossa. D’altra parte, ciò che accade a livello macro, non è detto che ci riguardi subito, direttamente, in prima persona. Riguarda alcuni prima, altri dopo, e, una minima percentuale, mai. Quindi, andiamo avanti e facciamo la nostra parte.
Ma quando, poi, il nostro Ministro dell’Economia e delle Finanze Tria, afferma che il Fiscal Compact è stato approvato in fretta e non potrà risolvere il problema del rallentamento economico, ti chiedi, davvero come si sia potuto consentire di inserire tale norma in Costituzione, nell’assoluta mancanza di condivisione. Alzando il baluardo che fosse cosa buona e giusta, per affrontare la crisi economica e finanziaria.
Per farla breve, noi non solo dobbiamo rispettare l’impegno preso a livello Ue, ma anche la normativa italiana. Il Fiscal Compact è un accordo intergovernativo di 25 Paesi membri firmato e ratificato dai contraenti, entrato in vigore il 1° gennaio 2013, quando il dodicesimo Stato aderente con moneta euro, lo ratifica, senza bisogno di raggiungere l’unanimità. Stabilisce l’obbligo del pareggio di bilancio dello Stato tra entrate e uscite, indipendentemente se il ciclo economico è a favore o è contro, quindi, un tetto alla spesa pubblica definito dalle entrate. In questo momento di inizio recessione è difficile pensare che possa aumentare il gettito fiscale visto che il PIL non aumenterà, mentre occorrono le risorse per il reddito di cittadinanza che incidono sulle spese. Difficile quindi vedere la luce perché nonostante la necessità impellente di spesa pubblica da destinare a infrastrutture, occorre mantenere la rotta sulla diminuzione progressiva del rapporto debito/Pil.
Così Tria si appella alla flessibilità, a superare rigide regole che perseguono alla lettera il controllo del deficit e la sostenibilità del debito pubblico. E si riparte sulla strada del dialogo con l’Ue.
Ma la crescita sostenuta non c’è stata e non si vede. E le riforme che ristrutturano i conti non hanno prodotto gli investimenti pubblici che servono al nostro Paese. Mentre rimane l’incertezza e, a questo punto, non basta più avere torto o avere ragione. Anche se, voglio ricordare che nel 2012, cinque premi Nobel per l’economia, Kenneth Arrow, Peter Diamond, William Sharpe, Eric Maskin, Robert Solow in un appello al presidente Barack Obama, in tema di pareggio di bilancio, scrivevano:
“Non c’è alcun bisogno di inserirlo nella Costituzione… La norma rappresenta una scelta politica estremamente improvvida… (con) effetti perversi in caso di recessione… Nei momenti di difficoltà diminuisce il gettito fiscale e aumentano alcune spese tra cui i sussidi di disoccupazione”.
Allora ho concluso che l’economia rimane lontana quando non è avvertita come utile, funzionale a migliorare la vita delle persone che aspettano che “funzioni” grazie alle scelte politiche, preannunciate a tempo debito, quantomeno “improvvide”.
Maria Luisa Visione