Pensando alla Brexit mi risuonano le parole dei bravi a Don Abbondio nel celebre romanzo di Manzoni, “Questo matrimonio non s’ha da fare”, pur se, in effetti, non trattasi di promesse d’unione, ma di divorzio.
E’ incredibile come il tempo scorra ad una velocità della quale non abbiamo sempre cognizione; il 23 giugno 2019, tra qualche mese, saranno passati ben 3 anni dalla decisione referendaria del popolo britannico di uscire dall’UE, mentre il 29 marzo prossimo scatteranno i due anni dall’attivazione dell’art. 50 del Trattato di Lisbona, per attuare in concreto la separazione. Alla volontà popolare dovevano seguire la super-maggioranza di almeno il 65% del Consiglio Europeo sull’accordo effettivo e, successivamente, l’approvazione del Parlamento Europeo, nonché la ratifica della Camera dei Comuni britannica.
Posizionandoci sulla rotta di marcia del percorso di uscita stabilito, oggi, dunque, dovremmo trovarci alla modifica delle leggi europee per i cittadini britannici con conseguente nuova legislazione nazionale sui rapporti con l’UE, fatto salvo il periodo di transizione di 20 mesi. Transizione necessaria prevista per Londra allo scopo di continuare ad applicare regole e convenzioni europee alla stregua degli altri Paesi membri, senza l’esercizio, però, del diritto di voto.
All’orizzonte, invece, si intravede un rinvio dell’uscita dall’UE della Gran Bretagna, proroga che, potrebbe scavallare le elezioni europee di maggio.
In sostanza, a quasi 3 anni dalla decisione popolare, e, soprattutto, prima del voto europeo, nessuno sa, di fatto, cosa succede se un Paese esce dall’UE. Il banale motivo è che i politici inglesi non hanno trovato un accordo tra loro perché il divorzio prospettato dalla premier Theresa May, troppo morbido, non sgancia davvero il Paese e lascia l’Irlanda del Nord, a parere dei laburisti, in uno stato di isolamento commerciale e territoriale.
Tutto il mondo si chiede allora come mai tutto questo tempo non sia stato sufficiente per elaborare un piano di uscita guidato, convincente e efficace, tanto da riproporre al popolo la questione o uscire senza trampolino, punto e basta. Insomma, bisognerebbe dire ai cittadini britannici che, non essendo stati in grado di produrre un piano di azione circostanziato e rispondente a tutti i partiti oltre che all’Europa, devono decidere se dare ancora fiducia, o lasciar perdere, rafforzando il falso mito che la permanenza nell’UE è per tutti irreversibile. Perché se non ci riescono i tecnici, i politici, gli economisti, alla fine anche la persona più ingenua pensa che non vogliono.
Il paradosso poi, è che se verrà concessa la proroga, sarà fatto, come previsto, all’unanimità, cioè tutti gli altri Stati membri dovranno essere d’accordo sulla data in cui termina la partecipazione della Gran Bretagna nell’Unione.
Le questioni tecniche sottostanti sono complesse, ma resta incontrovertibile che, se un Paese uscisse dall’UE completamente, ritornando alla sua piena sovranità, monetaria e fiscale, dimostrando di essere capace di legiferare condizioni commerciali e doganali avendo benefici pur essendo sganciato e autonomo, il castello crollerebbe. Inoltre, se, a seguito, dell’uscita, al netto di un periodo di incertezza, lo Stato uscente diventasse più forte economicamente, questo sarebbe davvero un problema.
Come scriviamo da tempo, la volontà è politica e la questione non è tecnica.
Maria Luisa Visione