Nel 2015 in Italia la previsione di spesa per istruzione in rapporto al PIL è pari al 3,7% e presenta un andamento gradualmente decrescente, che si protrae per il quindicennio successivo (fonte DEF – Documento di Economia e Finanza 2016 – Ministero dell’Economia e delle Finanze). Il dato non comprende la spesa per istruzione degli adulti e la scuola dell’infanzia. Tale stima, insieme al recente rapporto Ocse 2016 Education at glance che attesta, in oltre un terzo dei giovani italiani tra i 20 e i 24 anni di età, quelli che non lavorano e non studiano (Neet), fa riflettere. E’ vero che nella previsione del DEF incide il calo degli studenti indotto da dinamiche demografiche, ma in sostanza, le risorse da destinare all’istruzione non mostrano una tendenza crescente fino al 2020. Inoltre, la deduzione logica conseguente ai dati Ocse, è che l’opzione Università non viene percepita dai giovani come tappa importante per entrare nel mondo del lavoro.
Mentre l’Istat certifica nel secondo trimestre del 2016 che i Neet italiani sono scesi al 22,3% rispetto al 25% nello stesso periodo del 2013, l’Ocse attesta che la loro percentuale è in aumento di ben 10 punti nel decennio 2005-2015. La differenza dei numeri dipende semplicemente dalle rilevazioni sottostanti che li hanno generati ma, per chi riceve le informazioni, l’esito è avere notizie in tempo reale contrastanti.
Nonostante il parziale recupero dei Neet certificato Istat, l’Ocse ci consegna un Paese in cui: la spesa pubblica per l’istruzione è in calo; gli insegnanti italiani, prevalentemente di genere femminile, sono i più anziani dei paesi interessati; le matricole nei corsi di laurea triennale sono il 37% contro la media del 57%, a causa anche dell’alto costo e della poca incidenza di accesso a borse di studio (ne usufruisce 1 studente su 5); si registra un minor tasso di disoccupazione per coloro che hanno frequentato un istituto tecnico o professionale (unica nota positiva).
Da parte del Governo prende forma l’idea di uno student act, da inserire nella prossima legge di bilancio. L’oggetto della misura è: rifinanziare il Fondo integrativo per il diritto allo studio; esentare dalle tasse universitarie i redditi più bassi; assegnare borse cospicue agli studenti di talento senza pesare sui bilanci delle famiglie supportando le meno facoltose; dare un premio agli atenei che si sono distinti per indire un bando di chiamata ad insegnare.
Accettare di arretrare culturalmente non ha giustificazioni. Anche se i numeri sulla disoccupazione giovanile non fanno orientare i giovani verso lo studio, questa rotta va corretta. Così come il primato italiano contenuto nell’Eurostat che evidenzia ancora differenza di genere nel mondo del lavoro. Nel 2015 quasi una donna su due, pur essendo in età da lavoro, era fuori dal mercato con un tasso di inattività di 20 punti superiore a quello degli uomini. In particolare, nella fascia di età tra i 25 e i 54 anni, le donne italiane inattive sono il 34,1%, a fronte dell’11,4% in Slovenia e dell’11,6% in Svezia. Anche l’equità è un processo culturale.
L’importanza di attribuire all’istruzione una quota diversa non può dipendere solo dai calcoli sulla spesa pubblica, ma dalla volontà di riconsegnare il futuro a giovani che credano nella forza del potere della cultura per lo sviluppo economico del loro paese.
Maria Luisa Visione