Quando mi sono laureata parlare di crisi bancarie era ancora un tabù. Erano gli anni in cui entravi in punta di piedi nella hall di una banca e avevi intorno più di un secolo di storia a guardarti dall’alto. La mia tesi sulla crisi della Cassa di Risparmio di Prato faceva rumore, perché il sistema non era stato in grado di vigilare adeguatamente sul risparmio privato, ma non lo potevi dire. I dissesti bancari allora si risolvevano con l’intervento di Banca d’Italia che indirizzava le altre banche italiane e, l’istituto in questione, fu il primo ad essere salvato dal Fondo interbancario di tutela dei depositi e dall’intervento di qualcuno più grande che l’acquistò, incorporandolo, in modo da evitare il “panico” tra i risparmiatori.
Ciò che è profondamente cambiato oggi è il controllo diventato europeo e non più nazionale, e, le regole: requisiti rigorosi da rispettare sui bilanci, maggiori limiti operativi, più vigilanza prudenziale.
Sorprenderà, forse, che dal 2010 al 2017 l’Italia, in merito ai salvataggi bancari, ha uno dei più bassi impatti sul debito pubblico, vale a dire che ha ricevuto meno interventi reali dallo Stato rispetto agli altri Paesi. Tuttavia, quando nel 2014 veniva richiesto alle banche europee di avere maggiore dotazione patrimoniale, chi aveva usufruito degli aiuti di Stato per ricapitalizzarsi (dato che era consentito) arrivò forte e preparato all’appuntamento con il c.d. comprehensive assessment, ma non noi.
Il passaggio fondamentale da comprendere, però, è la graduale cessione di sovranità bancaria, iniziata con una comunicazione del 2013 con cui si limita l’accesso al Fondo interbancario di tutela dei depositi se è inquadrabile come aiuti di Stato. Oggi ogni intervento nel sistema bancario che comporti l’impiego di risorse pubbliche deve ricevere inderogabilmente l’approvazione da parte della Direzione Concorrenza della Commissione Europea, che, quindi, ha a tutti gli effetti potere di autorizzarlo o meno. L’ingerenza dello Stato con l’applicazione della Direttiva sul bail-in diventa eccezionale e subordinata a approvazione della Commissione Europea.
Così l’aggravio di regole creditizie sui requisiti minimi di capitale ha trovato applicazione mentre il PIL italiano crollava, traducendosi in riduzione di prestiti a famiglie e imprese, e, per le banche, in abbassamento dei costi operativi, pensiamo alla continua chiusura di filiali fisiche sul territorio.
Il disegno è piuttosto chiaro: applicando le stelle regole a tutti, sopravvive il più forte; niente di strano, dunque, che il futuro sistema bancario italiano sarà probabilmente rappresentato da pochi gruppi, indipendentemente dalla nostra storia e dalla nostra economia domestica fatta da piccole e medie imprese. Inoltre, oggi, se una banca è in dissesto e non rientra nell’ipotesi europea di salvataggio pubblico, ma nessuno sul mercato è disposta a comprarla, si liquida in un fine settimana a prezzi stracciati.
C’è da ultimo la questione del MREL, cioè maggiori livelli di patrimonio e passività (emissione di obbligazioni da parte delle banche), per far fronte alle crisi bancarie a regime nel 2024.
Sperando che il negoziato europeo in corso porti all’obbligo di non raccogliere tale denaro presso i risparmiatori privati e le famiglie, il sintetico excursus di regole per risolvere la crisi ci mostra che, siamo passati dal timore reverenziale e dalla fiducia a “speriamo che me la cavi”.
Siamo proprio sicuri che questa sia la strada giusta?
Maria Luisa Visione