Economia

Troppi posti di lavoro e imprese a rischio 

La verità è spesso aspra, qualcuno direbbe severa, ma va raccontata e ricordata sempre. In tutte le discipline che hanno un impatto sociale sulla vita reale delle persone come accade per l’economia, perché finché i contenuti restano sui libri di scuola, in teoria possono risolversi in semplici postulati, ma quando ci si confronta con la realtà cambiano molte cose.

Accanto alla voglia di uscire da una situazione di emergenza così lunga e bloccante come quella che viviamo ormai da troppo tempo, i bollettini economici sui posti di lavoro sono una brutta realtà, alla quale tutti vorremmo smettere di pensare, almeno per un po’. Guardando le notizie e i comunicati, però, diverse sono le grida di allarme che possiamo raccogliere. Dal milione di disoccupati del 2020 ai 500.000 posti di lavoro a rischio, come ricorda la Cisl Toscana.

La misura del blocco sui licenziamenti è un tampone a una parte dell’emorragia. L’indagine Svimez-Centro Studi delle Camere di Commercio Guglielmo Tagliacarne-Unioncamere, condotta su un campione di 4.000 imprese manifatturiere e dei servizi, denuncia 73.200 imprese italiane tra 5 e 499 addetti, a forte rischio di espulsione dal mercato. Parliamo di un altro 15% delle nostre industrie che tra Mezzogiorno e Centro ne rappresentano ben il numero di 37.400. Di queste, una quota quasi doppia rispetto a quella manifatturiera, riguarda il settore dei servizi.

Allora di fronte a queste cifre severe proviamo ad immaginare quale mondo ci aspetta.

Nell’indagine si legge che i motivi di tali rischi di espulsione dal mercato sono da rintracciare nella “pregressa fragilità strutturale causata dalla mancanza di innovazione, di digitalizzazione e di export”, oltre che nelle previsioni ancora negative sulla crescita economica dell’anno in corso, innescate dalla pandemia. Da quanto emerge sembrerebbe che il modello vincente di sviluppo economico sia quello basato sulle esportazioni. Se fosse vero tutte le aziende del mondo adotterebbero tale modello. Tuttavia, se tutti i Paesi lo fanno, con l’obiettivo di avere surplus commerciale da esportazione, chi importerebbe?

Sinceramente al mondo che ci stanno preparando in cui saranno gli algoritmi a decidere sui nostri gusti e preferenze, influenzandoci nelle opinioni, mantenendo la unidirezionalità di pensiero, come automi governati a monte, preferisco le eccellenze italiane, le botteghe artigiane, i negozi aperti con le persone che interagiscono, dove prevalgono le storie personali e la voglia di continuare a raccontarsi guardandosi negli occhi.

Siamo nella condizione di essere in pausa, in attesa dei soldi del Recovery Plan, le risorse economiche per far avanzare digitalizzazione e costruire uno sviluppo sostenibile. Ottime intenzioni se davvero si considerano le risorse strumenti a servizio di una migliore qualità della vita e di un futuro nel quale “dobbiamo” esserci.

Ma la domanda che mi sorge spontanea è: Dato che la maggior parte dei soldi europei in arrivo è destinato alla riconversione ecologica, mercato oggi dominato dalla Germania, quanto del denaro promesso arriverà davvero all’economia reale italiana? E soprattutto mi chiedo: Quando?

Perché nel frattempo, puntando il dito alla luna, si inaridisce la terra.

Il mio pensiero è che applicare regole uniformi senza tener conto delle diversità sia sbagliato, a prescindere.

Ma siamo qui e lo racconteremo. Anche se non fa comodo e non ci piace perché abbiamo bisogno di tornare a volare. Per non dimenticare che diversità e pensiero critico sono valori importanti, in attesa del futuro. 

Maria Luisa Visione

Francesco Laezza

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