Siamo alle battute finali della ricostruzione di una storia solo apparentemente ‘vecchia’. Di anni ne sono passati tanti ma le ferite sono più aperte che mai e lavorando su questo argomento ce ne siamo accorti. Ecco l’anteprima della nuova puntata. Vicchio. L’episodio più cruento, quello che resta più di tutti nella memoria di quanti ricordano la storia del mostro di Firenze. Sarà per l’età dei ragazzi, sarà per la forza con cui il padre di Pia Rontini ha lottato contro tutto e tutti in cerca di verità, fino a morire di dolore dopo la sentenza che condannava Pacciani e i compagni di merende, sarà perché in qualche modo Vicchio rimane dentro come una pugnalata. Ricostruire questo episodio, a prescindere dai dettagli di cronaca, estratti degli atti, supposizioni è stato doloroso anche per noi. Siamo quasi alla fine di questa nostra ricostruzione, capirete perché leggendo questo (lungo ma necessario) articolo e il prossimo. E arrivati in fondo sentiamo tutta la pesantezza che c’è nello scavare dentro ferite che sono tutt’altro che chiuse, dentro dolori che il tempo non ha mai sopito, dentro memorie che si cerca di tenere chiuse in un angolo oppure omertà e convinzioni date a suo tempo come verità assolute, risposte alle quali aggrapparsi. Sapendo bene che quelle non erano le risposte giuste. Ma erano forse qualcosa a cui aggrapparsi e quando si è disperati, anche una convinzione serve. In questo articolo più che in tutti gli altri, forse, c’è la sensazione che le vittime chiedano ancora giustizia. Andare a fare foto, a cercare dettagli, a fare video utili a questi servizi, ci ha fatto sentire il peso di energie ancora forti nei luoghi dei delitti. Quasi richieste d’aiuto.
Abbiamo percorso circa 50 km in direzione nord est e, dalla sorgente del torrente Vingone, ci spostiamo nuovamente sul greto della Sieve, già protagonista della nostra sosta del 1974 a Borgo San Lorenzo. Il Mugello non rappresenta l’ideale di campagna toscana, ma in quel degradare di colori che si fanno sempre più scuri ed ovattati, Borgo, Dicomano, Scarperia diventano piccoli gioielli incastonati nell’ombra di terre da sempre fedeli e culturalmente vicine a Firenze. E’ a Vicchio che nacquero Giotto e Beato Angelico, entrambi capisaldi della pittura italiana e incredibilmente specchio di quell’ossimoro che ancora oggi riscontri negli abitanti del Mugello: persone schiette, nette e decise, ma sempre disponibili nel rivendicarsi umili, riservate e discrete. E’ il 29 luglio 1984, da Los Angeles, in diretta mondiale, si è da poche ore conclusa la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi ed in Calabria, come risposta alla visita della Commissione Parlamentare Antimafia, un altro bambino è stato rapito da quell’organizzazione che si fa chiamare Anonima Sequestri.
A Vicchio sono le 21:15 quando Claudio Stefanacci, ventidue anni, e Pia Rontini, diciotto anni, escono di casa, attraversano corso del Popolo ed entrano in una Fiat Panda allontanandosi dal centro del paese. Mezz’ora più tardi cinque colpi di arma da fuoco rimbombano nella campagna, lungo la Sagginalese, ad una trentina di metri da quell’ansa che forma La Sieve prima di proseguire il suo corso verso Dicomano. Sono le 3:45 del mattino quando una persona non identificata avverte i Carabinieri di Borgo San Lorenzo che in località Boschetta di Vicchio ci sono due ragazzi morti. In paese le famiglie Rontini e Stefanacci sono ormai in allarme da ore per il mancato rientro a casa dei rispettivi ragazzi e la conferma che una Panda celeste appartenente al giovane è stata vista ferma nella piazzola della Boschetta arriva da Piero Becherini, amico di Claudio e primo a dare la notizia ad una Vicchio che quel lunedì mattina si sarebbe svegliata con l’orrore addosso.
Claudio, rannicchiato nel vano posteriore della sua Fiat Panda, indossa una maglietta, slip e calzini.
E’ stato raggiunto da tre colpi di arma da fuoco di cui uno superficiale all’emitorace sinistro, uno all’ipocondrio sinistro con perforazione del polmone e uno, mortale, dietro l’orecchio sinistro con passaggio in cavità cranica. Il corpo di Stefano presenta inoltre ferite da arma da taglio inferte con grande violenza in limine vitae al ventre, alla schiena, ai fianchi e alle cosce.
Pia è invece sdraiata supina, a meno di dieci metri dalla fiancata destra dell’auto, vicino al palo dell’alta tensione che si erge come una croce in mezzo ad un campo di erba medica. Nella mano destra stringe reggiseno e camicetta. E’ stata colpita da due proiettili, uno superficiale all’arto superiore sinistro e uno, con esito mortale in non più di 15 minuti, in regione zigomatica ed ingresso in cavità cranica. Le sono stati inferti sul collo due colpi orizzontali di arma da taglio, con ogni probabilità quando ancora si trovava nei pressi dell’auto. A Pia è stata praticata l’asportazione della zona pubica con interessamento delle cosce e la mutilazione del seno sinistro. Il corpo presenta abrasioni da trascinamento.
La Fiat Panda di Claudio ha la retromarcia inserita, tutti gli sportelli chiusi con il finestrino destro frantumato con vetri all’interno dell’abitacolo. Esternamente, sullo sportello destro, due impronte rotondeggianti della stessa grandezza e alte parimenti da terra, impronte digitali nella parte alta dello sportello, macchie di sangue sia sulla cornice del finestrino che nel predellino. All’interno dell’auto i sedili sono completamente ribaltati e sotto di essi vengono rinvenuti gli effetti dei due ragazzi.
Vengono rinvenuti cinque bossoli, uno a poche decine di centimetri dalla ruota anteriore destra dell’auto e quattro all’interno dell’abitacolo. Sono di marca Winchester e presentano tutti la lettera H sul fondello. Pia Rontini e Claudio Stefanacci sono la tredicesima e quattordicesima vittima della beretta calibro 22 l.r., strumento omicida del mostro di Firenze.
Sono le quattro e mezza quando ai Carabinieri di Borgo San Lorenzo giunge una telefonata che avverte di un incidente stradale, causato da un autocarro, avvenuto in località Sagginale. I corpi dei due ragazzi sono già stati trovati ed il Sostituto Procuratore Paolo Canessa è già in viaggio per raggiungere il luogo del delitto. La voce al telefono si identifica come “fornaio Farini”. I controlli che seguiranno non porteranno ad individuare alcun incidente stradale causato da un autocarro e avvenuto la mattina del 30 luglio in località Sagginale, ma soprattutto non riusciranno a chiarire chi, in piena notte, si era preso la briga di tale falsa segnalazione: nessun fornaio della provincia sembra avere come nome Farini, sebbene, sia il riferimento al fornaio, sia il cognome del fornaio stesso, sia l’autocarro coinvolto nell’incidente, non possano non farci per un attimo riflettere. Ricordiamo che il fornaio Piero Mucciarini si trova attualmente in carcere con l’accusa di essere coinvolto nei delitti del mostro, ma non solo, anche Francesco Vinci viene ancora trattenuto in galera con l’accusa di furto di un autocarro e che tal Farini era il protagonista di un fumetto noir a sfondo erotico che uscì nelle edicole nel gennaio del 1982 con un racconto dal titolo “L’assassino del bisturi”. Gli autori si erano chiaramente rifatti alla storia del mostro di Firenze riferibile ai due duplici omicidi del giugno e ottobre 1981 quando il killer per la prima volta infierì sul corpo delle ragazze asportando loro il pube. La storia che viene raccontata è più o meno quella rintracciabile nel guardone Spalletti, secondo mostro ad essere sbattuto in prima pagina, ma inserisce un particolare, fino ad allora inedito: il killer, oltre al pube, asporta anche i seni delle protagoniste del fumetto. Dopo il film Maniac del 1981 e la rivista Golden Gay di Giogoli, il fumetto Attualità Gialla impone nuovamente una riflessione sulla suggestionabilità del mostro che, non a caso e più in generale, con la stampa ed i media dimostra e dimostrerà sempre di interagire, quasi intrecciando una sfida e godendo dello spazio che gli stessi gli riservano esaltando il suo ego. Al di là di queste valutazioni ciò che preme sottolineare è come, a Vicchio, la follia dell’assassino si manifesti in tutta quella rabbia con cui infierisce sui corpi dei ragazzi. E’ la prima volta che si preoccupa così tanto della figura maschile e la prima volta che, oltre al pube, asporta anche il seno sinistro alla ragazza. Spara solamente cinque volte e poi infierisce con la lama, probabilmente un coltello da sub, quando i corpi sono ancora in vita. Lo stato d’animo del mostro è meno lucido che in altre occasioni. In quella piazzola lascia tracce di se stesso, le impronte delle ginocchia appoggiate allo sportello di destra, l’impronta digitale sulla cornice del finestrino, la certezza che si sia allontanato in direzione del fiume attraversando la strada asfaltata e probabilmente munito di un corpo illuminante. Tutti elementi che purtroppo non porteranno a nessuna evidenza in quanto elementi corrotti e non al tempo analizzabili se non nei gruppi sanguigni delle chiazze ritrovate, ma corrispondenti esattamente a quelli delle vittime.
Torniamo al 30 luglio 1984. Piero Mucciarini, Giovanni Mele e Francesco Vinci sono ancora in carcere accusati di aver preso parte al duplice omicidio del 1968 di Castelletti di Signa (i primi due anche indagati per gli omicidi attribuiti al mostro di Firenze) ed i Carabinieri si presentano a casa di Salvatore Vinci in Via Cironi a Firenze, a poche ore dal ritrovamento dei corpi dei due ragazzi di Vicchio. Durante la perquisizione, all’interno di un armadio, sotto alcune coperte fu rinvenuta una borsa di paglia da donna con all’interno tre panni di stoffa, l’uno avvolto nell’altro. I primi due panni non presentavano nulla di particolare, il terzo invece evidenziava macchie di color rosso – giallastre ed in generale era stato sporcato con materiale grigio scuro. Da esami frutto di successive perizie ematologiche e chimiche risultò che le prime macchie erano riferibili a tracce di sangue gruppo sanguigno 0 e B e che le striature più scure erano rintracciabili in polvere da sparo. La borsa fatta vedere all’allora attuale compagna di Salvatore Vinci, Antonietta D’Onofrio e alle precedenti fidanzata Ada Pierini ed ex moglie Rosa Massa, non risultò essere di proprietà di nessuna di esse e, dalle stesse, di non essere mai stata notata in casa. A seguito della perquisizione Salvatore Vinci fu condotto in caserma dove gli fu chiesto di raccontare cosa avesse fatto la sera precedente mentre Pia e Claudio venivano trucidati a Vicchio. Il Vinci raccontò di aver passato la prima parte della serata con la compagna Antonietta D’Onofrio e la sua bambina, di aver consumato un gelato in Via de Cerretani e di essere rientrati a casa intorno alle 22:00 a causa di una richiesta pervenuta alla sua azienda di Pronto Intervento Casa.
Il figlio Roberto avrebbe provveduto ad effettuare l’intervento prima del suo arrivo a casa. Riferisce di essere nuovamente uscito per andare a cercare il cane e di averlo recuperato ai giardinetti di Via Circondaria rientrando alle ore 23:30, di essersi fermato nel laboratorio situato di fronte all’abitazione e poi di essersi messo a guardare la tv insieme al figlio Roberto fino alle 3 del mattino quando avrebbe deciso di recarsi ai giardini della Fortezza per fare un po’ di jogging. Alle 5 Antonietta D’Onofrio lo avrebbe raggiunto per una colazione consumata in un bar di Novoli e poi sarebbe rientrato a casa alle prime luci dell’alba.
In occasione di un altro confronto avvenuto in data 8 agosto 1984, Salvatore Vinci confermerà la prima dichiarazione rilasciata, ma omettendo gli orari. Il figlio, sentito dagli inquirenti confermerà la versione del padre, ma non ricorderà se, in occasione del primo intervento effettuato su chiamata, Salvatore fosse o meno in casa o se fosse o meno rientrato quando lui ha lasciato l’abitazione. Roberto Vinci dichiara di essersi assentato per il lavoro circa un’ora e di aver ricevuto una seconda chiamata di intervento intorno alle una del mattino. Anche Antonietta d’Onofrio rilascerà una dichiarazione verosimile a quella del compagno, ma non si ricorderà del particolare del gelato, sicuramente non mangiato in Via de Cerretani, in quanto solamente tre volte Salvatore ha portato lei e la bambina a prendere un gelato e mai in Via de Cerretani, ma in due gelaterie differenti, una a Porta al Prato e l’altra nei pressi della Fortezza. Si ricorda che probabilmente quella sera sono andati a Porta al Prato e di essere rientrati verso le 22:00 quando il figlio Roberto esce per un intervento di lavoro ed il compagno passa una mezz’ora all’interno del laboratorio per poi andare a cercare il cane in piazza Tanucci, particolare di cui è sicura in quanto avrebbe dovuto consegnarle le chiavi dell’auto affinché lo stesso potesse raggiungere i giardinetti dove è solito sostare il cagnolino. La signora si dichiara sicura che il marito fosse nel laboratorio in quanto dalla finestra della camera dell’appartamento è possibile vedere il tavolo da lavoro da dove avrebbe scorto le sue gambe ed è certa del ritorno del compagno con il cane intorno alle una e venti, orario in cui ha deciso di andare a letto, lasciando Salvatore Vinci nuovamente all’interno del laboratorio. Alle quattro e mezza del mattino Antonietta si sarebbe svegliata e avrebbe raggiunto il compagno presso la Fortezza dove lo stesso si era recato per fare ginnastica.
A seguito di queste dichiarazioni viene eseguita una seconda perquisizione nell’abitazione di Salvatore Vinci. All’interno di un comò vengono rinvenuti un coltello a serramanico, tipo “pattadese”, con lama lunga cm. 10,5 e manico di cm. 13; un coltello a serramanico, con lama lunga cm. 8,5 e manico di cm. 10,5, entrambi non presenti durante la perquisizione del 30 luglio.
E’ chiaro che la pista sarda rimane un punto fermo per gli inquirenti, è chiaro che le attenzioni adesso sono rivolte a Salvatore Vinci, è chiaro che le dichiarazioni raccolte non convincono i Carabinieri che probabilmente riscontrano nel racconto dei familiari più una sorta di “accordo” preventivo che una spontanea relazione dei fatti. Il figlio Roberto riceve due chiamate, ma Salvatore e Antonietta riferiscono solamente di una, quella delle 22:00; il figlio Roberto non è in grado di ricordare se il padre fosse in casa quando è partito per effettuare il primo intervento richiesto; Antonietta non ricorda con precisione se il dato relativo al gelato sia da collocarsi prima o dopo l’orario di cena e addirittura se esattamente a quella serata, ma sicuramente non nel luogo riferito dal marito. La presenza del Vinci nel laboratorio è confermata solamente dalle parole della compagna che sostiene di riuscire a intravedere le gambe del marito attraverso la serranda della finestra, ma soprattutto, se la donna fosse stata ancora sveglia alle una per consegnare le chiavi della macchina a Salvatore Vinci perché non riferisce della seconda chiamata di intervento ricevuta da Roberto, unico a riportare questo episodio poi verificatosi attendibile? Stessa cosa è da riferire a Salvatore che, non in linea con la compagna, dichiara di essere uscito intorno alle 23:00 per andare a cercare il cane e di essere poi rimasto a casa a guardare le olimpiadi insieme al figlio Roberto senza ricordarsi, però, della chiamata di pronto intervento ricevuta da quest’ultimo.
Il 2 ottobre 1984 Giovanni Mele e Piero Mucciarini verrano scarcerati con revoca del mandato di cattura per omicidio premeditato. Il 26 dello stesso mese anche Francesco Vinci verrà rimesso in libertà ed è in questa occasione che riferirà: “Io non credo che Stefano abbia ucciso la moglie e l’amante – in riferimento al duplice omicidio del 1968 – (…)Voi mi chiedete chi è? Può capitare tra la gente di mala che ci si chieda un favore che poi si rende. Ma Stefano non conosceva nessuno del giro. Non aveva amici. Allora ci deve essere qualcuno a lui molto vicino che nessuno sospetta. Il Mostro è uno molto intelligente, uno che sa muoversi di notte in campagna anche a occhi chiusi, uno che sa usare il coltello non come gli altri. Uno che una volta ha avuto una grandissima delusione”
Dopo pochi giorni dalla scarcerazione dei presunti mostri, i Carabinieri si recarono a Villacidro per approfondire la storia del suicidio di Barbarina Steri, prima moglie di Salvatore Vinci, con il sospetto che la donna fosse deceduta per strangolamento e non per volontaria decisione di togliersi la vita ed è durante questo viaggio che scoprono della Beretta Calibro 22 appartenuta a Franco Aresti, unico esemplare di quelle registrate di cui se ne sono perse le tracce, ma di questo vi abbiamo già raccontato nella seconda puntata del nostro viaggio.
Siamo ormai ai primi mesi del 1985 e l’azione investigativa gira intorno al gruppo dei Sardi, intorno a Salvatore Vinci a cui viene messa sotto controllo l’utenza telefonica. A giorni non continuativi un’auto dei Carabinieri controlla la sua abitazione e redige rapporti sui suoi spostamenti sebbene saranno gli stessi agenti a lamentare un’incapacità effettiva di controllo in quanto l’uomo è dotato di particolare abilità fisica e intellettiva. Sa di essere sotto i riflettori ed ha atteggiamenti che non possono escludere possibili fughe dall’abitazione sfruttando le proprie capacità a calarsi dalle finestre del retro a seguito di una scuola di alpinismo che lo stesso frequenta presso le Cave di Maiano. Questo particolare gli consente di avere a disposizione corde, strumenti ed un elmetto munito di lampada che verosimilmente utilizza per esercitarsi quando non frequenta i regolari corsi. Salvatore Vinci in effetti è uomo dedito all’attività sportiva come già evidenziato durante una perquisizione avvenuta nel 1983 quando furono verbalizzati oggetti e strumenti utili alla pesca sportiva in acqua dolce e subacquea in mare a cui lo stesso Vinci si dedica insieme al figlio Giancarlo.
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L’attività investigativa segue, quindi, una precisa strada e andando a ritroso si cercano riscontri anche per i precedenti duplici omicidi. Ci ricordiamo dell’alibi fornito da Salvatore Vinci in occasione del delitto di Giogoli quando l’uomo aveva affermato di aver effettuato un intervento lavorativo in un appartamento di Via della Chiesa, 42. Si scoprirà che la chiamata al Vinci era stata fatta da Luisa Meoni, si scoprirà che non era la prima volta che Salvatore effettuava un intervento in quell’appartamento purtroppo non si potrà mai verificare quanto riportato dall’uomo in quanto il 13 ottobre 1984 Luisa Meoni fu trovata morta all’interno della sua abitazione, supina a terra con le braccia legate con le maniche del proprio golf ed un batuffolo di cotone in bocca. Era stata uccisa da ignoti. All’interno del suo appartamento fu rinvenuta una ricevuta fiscale datata 21 ottobre 1982 a firma dell’azienda Pronto Intervento Casa di Salvatore Vinci.
Non era la prima prostituta ad aver subito una fine così tragica: a Firenze da qualche mese la stessa sorte era toccata anche a Giuseppina Bassi uccisa per strangolamento alla fine di luglio del 1984, a Clelia Cuscito straziata da numerosi colpi di arma da taglio nel dicembre del 1983, a Giuliana Monciatti uccisa con un arma bianca da taglio nel febbraio del 1982. Quattro prostitute che ricevevano i clienti nei propri appartamenti. Due uccise per strangolamento, due con utilizzo di arma da taglio. Non solo: il 21 gennaio 1984 Paolo Riggio e Graziella Benedetti decidono di appartarsi sul greto del fiume Serchio in località Sant’Alessio, in provincia di Lucca. Paolo e Graziella sanno di non essere nel raggio di azione del mostro di Firenze, ma purtroppo non verranno risparmiati da cinque colpi di arma da fuoco che non lasceranno loro scampo. I bossoli rinvenuti sono stati sparati da una beretta calibro 22, ma i proiettili ed i bossoli rinvenuti non saranno marca winchester con H sul fondello: non è stato il mostro di Firenze ed il caso verrà archiviato. Pochi mesi più tardi, aprile 1985, in località Cave di Maiano, verrà rinvenuto il cadavere della giovane Carla Fantoni, uccisa con colpi di arma contundente ed abbandonata in mezzo ad una strada. Le Cave di Maiano erano state teatro anche della barbara uccisione causata da sedici coltellate di Bruno Borselli nell’ottobre del 1984. Il corpo fu ritrovato nei pressi di una zona molto frequentata da coppiette in cerca di intimità e guardoni. Tutti delitti impuniti, tutte uccisioni che sono rimaste senza un colpevole come quella della povera ragazza senza identità, uccisa e con il corpo semi carbonizzato, ritrovata in un campo a pochi chilometri da Calenzano la mattina del 23 luglio 1984.
Non ci sono certezze che questi episodi siano tutti collegati ad un solo caso di killer seriale, sicuramente ci rimane difficile immaginare una serie di assassini che nello stesso arco temporale, nella stessa zona geografica, con le stesse sfumature rintracciabili nella sfera sessuale possano nascere, agire e rimanere impuniti contemporaneamente.
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Torniamo comunque ai dati oggettivi del nostro racconto. Siamo ormai nell’aprile del 1985, sono passati nove mesi dal duplice omicidio di Vicchio e torna in scena Rosa Massa, seconda moglie di Salvatore Vinci dopo Barbarina Steri. La donna fu sentita dal Colonnello Torrisi e dal S.P. Izzo in merito alla sua vita insieme all’ex marito. La donna raccontò delle perversioni sessuali del coniuge, di come l’obbligasse ad accoppiarsi anche con altri uomini e del modo in cui fosse impossibile mantenerci una sana e naturale convivenza. In questa occasione Rosa Massa riferì un dato che diventerà importante negli anni a seguire: la profonda e forte amicizia con Saverio Biancalani, uomo sempre presente nella vita di Salvatore Vinci e punto di riferimento certo e sicuro. Raccontò di come il marito era solito avere rapporti sessuali con la moglie del Biancalani e di quanto insistesse affinché anche lei si comportasse allo stesso modo con il suo amico. Durante questi incontri Biancalani e Vinci alternavano in uno scambio di coppia le proprie mogli e talvolta si gratificavano sessualmente anche senza l’intervento delle due parti femminili. Salvatore costringeva Rosa Massa ad avere rapporti sessuali con sconosciuti all’interno della propria autovettura e poi in un secondo momento si univa al rapporto. Rosa Massa riferirà di come Salvatore alternasse momenti di profonda depressione, di astinenza dal cibo, di crisi di pianto a sempre più esasperanti ricerche di soddisfazione sessuale.
Dopo due giorni gli inquirenti passarano ad ascoltare la terza compagna di Vinci, Ada Pierini. La donna confermò le perversioni di Salvatore e nel ricordare il particolare dell’arresto di Francesco Vinci, alla Pierini sfuggì un particolare molto importante per gli inquirenti: “…ricordo che Salvatore indossava una maglietta chiara uniforme con righe orizzontali rosse….lo ricordo bene perché gliel’ho regalata io nel 1980….” Durante successivi interrogatori avuti con Ada Pierini, gli inquirenti, verranno poi a sapere che Salvatore era solito indossare la camicia la domenica e di far utilizzo di magliette di vari colori con fantasia a righe durante i giorni della settimana.
Il 30 maggio 1985 anche Stefano Mele sembra aver ritrovato la memoria e durante un interrogatorio sul duplice omicidio del 1968 a Signa confermò i rapporti sessuali avuti con Salvatore Vinci, le perversioni sessuali a cui costringeva sia lui che sua moglie Barbara Locci e di come proprio lui, Salvatore, aveva ideato l’omicidio dell’Ape Regina. Raccontò con dovizia di particolari la notte del 21 agosto 1968, di come Salvatore passò a prenderlo e lo portò nel punto in cui si era fermata la macchina di Antonio Lo Bianco. Arrivò persino a dichiarare di aver dato 400 lire per l’acquisto di una pistola utile a commettere il duplice omicidio e che se avessero voluto ritrovare l’arma avrebbero dovuto cercare a casa di Salvatore Vinci come già dichiarato nell’agosto del 1984.
Anche Ada Pierini aveva accennato alla presenza di una pistola sotto ad una mattonella della camera da letto (almeno durante il periodo in cui la donna aveva convissuto con Salvatore) ed ecco che il 26 giugno 1985 scattò l’ennesima perquisizione in Via Cironi, 8. Nell’occasione fu verbalizzato il ritrovamento di un appunto “ Sign. Magiore Toriso Via Colli n.101 – 264261” . Il numero di telefono corrispondeva alla stazione dei Carabinieri presso cui prestava servizio il colonnello Torrisi, impegnato in prima persona nelle indagini relative al mostro di Firenze; l’indirizzo non trovò riscontri in città sebbene esistesse un Via dei Colli a Signa. Al di là di questo, quello che ci colpisce, è questo difetto grammaticale collegato alle parole con lettera doppia: Magiore, Toriso che ci proietta subito con la mente e la fantasia ad un’altra parola che prevede la doppia B: repubblica. Oltre a questo appunto, tra i vari oggetti rinvenuti, di chiara finalità sessuale o collegati ad un utilizzo per autoerotismo o di coppia, fu repertata una rivista a fumetti dal titolo “Jacula” uscita nelle edicole nel 1976 e dal Vinci conservata tra i propri effetti personali. Nella fattispecie del numero 198, un personaggio coperto da un nero mantello si muove nella notte, cerca le sue vittime e incontrando due giovani lesbiche, prima le narcotizza con un batuffolo di cotone davanti alla bocca e poi le violenta brandendo un affilato coltello.
Nessuna arma da fuoco fu rinvenuta così come nessun modello di maglietta a righe colorate, fatte sparire, secondo Ada Pierini, dopo che lei aveva abbandonato l’abitazione dell’ex compagno. In realtà se la Pierini anche successivamente confermerà i particolari sul modo di vestire di Salvatore Vinci, ammetterà invece di essersi inventata tutto in merito alla pistola: per lei era un modo per vendicarsi del suo ex fidanzato per tutte le sofferenze che le aveva procurato.
Nessuna prova, ma tanti indizi continuano a tenere Salvatore Vinci sotto i riflettori degli investigatori che, con tutti i protagonisti del 1968 ormai in libertà, hanno la quasi matematica certezza che il mostro tornerà a colpire. Aumentano i controlli in tutta la provincia fiorentina ed ai caselli autostradali si comincerà a breve a distribuire il volantino “Occhio ragazzi”, diventato un simbolo della paura e dell’impotenza provate in quegli anni da una città sempre più incredula e rassegnata. Con il duplice omicidio di Vicchio il killer colpisce tutti, giudici e magistrati, giornalisti e psicologi, genitori e figli; alla Boschetta il mostro sigilla il suo più grande “successo” sulla pelle di due fiori appena sbocciati, ma vittime anche di un sistema che anticipava i protagonismi da nuovo millennio a scapito di un impegno collettivo rivolto a ridare sicurezza a tutta una comunità indifesa.
Lasciamo il Mugello in direzione San Casciano val di Pesa per l’epilogo di questa triste vicenda e la conclusione del nostro viaggio che, come vedremo, non potrà andare oltre l’anno 1989.
Andrea Ceccherini
Katiuscia Vaselli