A Giogoli, a meno di un chilometro in linea d’aria dalla piazzola dove la sera del 9 settembre 1983 due ragazzi tedeschi decisero di parcheggiare il loro pulmino Volkswagen, nasce il torrente Vingone, testimone del primo duplice omicidio collegato al mostro di Firenze. Il corso d’acqua, dopo aver bagnato per circa 13 chilometri la campagna fiorentina, attraversa Signa, scorrendo sotto a Via di Castelletti, per poi sfociare nell’Arno.
E’ proprio in Via del Vingone che la signora Laura, quel venerdì 9 settembre, dall’interno della sua autovettura, nota un individuo scendere a piedi, verosimilmente da Via di Giogoli. L’uomo ha tra i 40 ed i 45 anni di età, è alto circa un metro e settanta e indossa una maglietta celeste con delle strisce rosse orizzontali, pantaloni scuri, ha capelli folti, lisci e tirati indietro.
Non è la prima volta che nominiamo una maglietta a strisce. Avevamo posto l’attenzione su questo particolare anche in occasione della prima parte relativa al delitto di Baccaiano quando, Bruno e Carlo Alberto, verso le ore 22,45 del 19 giugno 1982, in concomitanza con l’ora del duplice delitto Mainardi – Migliorini, nel percorrere a bordo di una Vespa la strada provinciale, all’uscita di una curva, a circa un centinaio di metri dal luogo del delitto, si ritrovarono improvvisamente davanti ad un uomo, alto circa un metro e settanta, capelli scuri, con pantaloni chiari e con maglietta per metà a strisce scure e chiara fino al petto, che al suono del clacson, si lasciò scivolare nella cunetta laterale alla carreggiata.
Torneremo a parlare nuovamente di questo dettaglio legato a particolari fantasie di magliette quando a distanza di due anni dal duplice omicidio di Giogoli, la stessa Ada Pierini, compagna, fino ai primi giorni di settembre del 1983, di Salvatore Vinci, verrà sentita dagli inquirenti in merito agli spostamenti, alle abitudini e al modo di vestire del suo ex compagno.
Ancora un uomo che cammina nella notte, ancora un cielo senza luna, ancora un torrente, ancora un abbandono, ancora un mezzo fermo in mezzo alla campagna fiorentina. Si tratta di un furgone, un camper che era arrivato a Giogoli il pomeriggio del 9 settembre 1983 dopo aver provato a fermarsi in altre piazzole, tra cui una in via degli Scopeti, ma che in più delle occasioni era stato fatto allontanare perché zone con divieto di lunga sosta. E’ una notte senza luna e due giovani tedeschi residenti a Monaco, Uwe Rush e Horst Mayer, in vacanza sulle colline fiorentine, stanno chiacchierando oppure sono sul punto di addormentarsi all’interno del veicolo, quando vengono raggiunti da almeno sette colpi di arma da fuoco. Mayer verrà ucciso sul colpo da due proiettili, uno in regione occipitale e l’altro addominale che trapassa fegato, cuore e polmone sinistro. Il terzo colpo non mortale nella regione glutea sinistra. Il corpo del ragazzo ventiquattrenne verrà rinvenuto sulla brandina da notte assolutamente composto e senza minimo segno di auto difesa. Rusch invece verrà raggiunto da quattro colpi complessivi di cui uno mortale in regione zigomatica sinistra con coinvolgimento della zona occipitale. Gli altri tre colpi non mortali sono alla mano, alla coscia ed al labbro superiore e dimostrano una volontà di difesa nei confronti dell’aggressore; il corpo del ragazzo verrà ritrovato sul fondo del camper evidenziando un tentativo di ricerca di riparo da quei colpi improvvisi che provenivano dall’esterno del furgone.
E’ probabile che l’assassino abbia sparato il primo colpo mortale nei confronti di Mayer dalla fiancata destra del camper per poi spostarsi sul lato sinistro del veicolo sparando ancora due colpi su Mayer ormai deceduto. Un colpo ancora dal lato sinistro ferisce solamente Rusch ed ecco che l’aggressore si sposta ancora sul lato destro mentre il ragazzo ancora in vita cerca riparo sul fondo del camper. Spara ancora un colpo ferendo nuovamente Rusch, ma non con esito mortale. E’ questo che costringe l’assassino a salire a bordo del furgone per finire il ragazzo e poi darsi alla fuga, accompagnato dalla musica dell’autoradio rimasta accesa e che via via si fa sempre più lontana.
Sarà Rolf Reinecke, un abitante di una delle depandance di Villa La Sfacciata, a scoprire i cadaveri dei due ragazzi, il giorno successivo e a quasi 24 ore dal momento della morte. Sul posto arrivano i Carabinieri che evidenziano due fori da proiettile all’altezza dei vetri della fiancata destra , due su quelli di sinistra ed uno, che ha trapassato la parte in lamiera della carrozzeria del lato sinistro. Tuti i colpi sono in entrata.
I bossoli recuperati sono solamente quattro: uno all’esterno nei pressi della ruota posteriore sinistra, uno all’altezza del lato destro della cabina anteriore e due all’interno della cabina posteriore. Tutti hanno la lettera H impressa sul fondello e sono stati sparati da una calibro 22 l.r.
I due sportelli della cabina di guida sono chiusi, il portellone di ingresso alla cabina posteriore semiaperto o accostato. Sul retro, all’altezza della marmitta, un’evidente macchia ematica macchia il terreno.
A poca distanza dal furgone, pagine strappate dalla rivista pornografica Golden Gay, a carattere omo/bisessuale, lasciate con ogni probabilità da pochi giorni visto lo stato di conservazione non ancora alterato né dalla vegetazione né dall’umidità di settembre. Il duplice omicidio di due ragazzi entrambi di sesso maschile non rientra nelle sue abitudini, ma la firma lasciata dalla pistola e dai proiettili non lascia dubbi, il mostro di Firenze è tornato a colpire.
Una domanda deve essere posta a questo punto al lettore: perché di venerdì, perché, non come di consuetudine, in un giorno prefestivo?
Chiaro che la risposta non può essere certezza, ma proviamo a ragionare. Sappiamo che il giorno 8 settembre Mayer e Rusch vengono avvistati sulla piazzola degli Scopeti (combinazione eclatante per noi che sappiamo ciò che avverrà nella stessa piazzola l’8 settembre di due anni più tardi sempre ad altri due stranieri accampati), probabilmente vengono fatti allontanare da qualcuno e arrivano nella giornata del 9 a Giogoli. Qui, la testimonianza del signor Pratesi: prima dell’arrivo dei due tedeschi un uomo alto circa 170 cm, con capelli scuri tirati all’indietro ed una maglietta a strisce bianche e blu, sostava in piedi sulla piazzola, con la schiena ricurva in atteggiamento da osservatore e con lo sguardo rivolto verso il campo che collega Via di Giogoli a Via del Vingone. Durante il sopralluogo eseguito dopo il ritrovamento dei cadaveri, gli investigatori noteranno come un’altra anomalia contraddistingua questo delitto. L’assassino per la prima volta utilizza due differenti tipi di munizioni, a piombo nudo e ramati, per commettere lo stesso omicidio. I proiettili ramati, posti con ogni probabilità in cima alla pila del caricatore, vengono utilizzati qualora si voglia penetrare materiali più solidi o a maggiore distanza mentre quelli a piombo nudo sono più adatti per colpi prossimi e diretti con basse penetrazioni all’interno del materiale da raggiungere. Verranno repertate, inoltre, alcune pagine volutamente sfrangiate con una lama, della rivista Golden Gay ritrovate in ottimo stato di conservazione della carta, a pochi metri dal luogo del delitto. Ma di cosa parla in generale Golden Gay? Un tribunale segreto dichiara e riconosce alcune persone come colpevoli di pregiudizio nei confronti degli omosessuali e delega ad un gruppo di agenti segreti, i Golden Gay, di rendere giustizia alle innocenti vittime di omofobia. “I super eroi” puniscono tutti coloro che in qualche maniera si rendono colpevoli di discriminazione e al tempo stesso rivalutano la personalità delle loro vittime. Nello specifico quel numero ritrovato a Giogoli trattava di un’ingiusta persecuzione di un omosessuale accusato di omicidio. Fatto questo ragionamento e provando a tentare un’interpretazione dei fatti, tutto il materiale in nostro possesso ci porta a credere che non sia molto perseguibile la strada ufficiale che vorrebbe il mostro in errore di valutazione. Non crediamo che avesse scambiato uno dei due ragazzi per una donna, non crediamo che la rivista Golden Gay testimoni solamente la presenza abituale di guardoni, non valutiamo casuale la caratteristica delle munizioni ed il posizionamento del furgone nella piazzola degli Scopeti il giorno 8 settembre. Molto più semplice, per noi, considerare Giogoli come un atto rappresentante una sfumatura umana dell’assassino che deve e vuole colpire per riappropriarsi del proprio ruolo. Il mostro uccide e lascia una piccola confessione della sua personalità; lo fa di venerdì, non può aspettare il sabato, non può farsi sfuggire nuovamente quel furgone Volkswagen, non vuol perdere di vista quei due ragazzi stranieri.
Perizie successive al delitto cercheranno ancora una volta di disegnare fisicamente un identikit del mostro basandosi su certezze, a nostro avviso, alquanto azzardate. Visto il livello da terra dei finestrini del furgone, si stabilisce che l’assassino non può avere un’altezza inferiore al metro e ottanta centimetri. Non si considera la condizione del terreno della piazzola, non si considera la distanza di eventuali alberi dal furgone, non si considerano le capacità di un uomo che sa muoversi perfettamente nei boschi e nel buio.
Al di là di questo, per capire cosa accadde nei mesi successivi al duplice omicidio di Giogoli, vi consigliamo nuovamente di ritornare al racconto di Signa ed al racconto di Villacidro.
Facciamo comunque un breve riepilogo:
I due ragazzi tedeschi sono morti da due giorni ed una chiamata anonima avverte i carabinieri che Antonio Vinci, figlio di Salvatore Vinci e nipote di Francesco, detiene presso la propria abitazione una gran quantità di armi. Scatta la perquisizione che non porta a nulla se non a raccogliere e verificare gli alibi del giovane Vinci per la notte in cui è stato commesso il duplice omicidio di Giogoli. Sempre l’11 settembre ricevettero una visita da parte dei carabinieri anche Salvatore e Giovanni Vinci. Alla richiesta di alibi Salvatore dichiarerà: “…Nel pomeriggio e nella serata di venerdì 9 corrente sono stato sempre in casa ad eccezione di un’uscita che ho fatto per un intervento in Via della Chiesa, 42, ciò verso le ore 16:00. (Salvatore Vinci è titolare della ditta Pronto Intervento Casa ed esegue prestazioni di vario genere presso i titolari delle abitazioni che lo contattano telefonicamente. Si tratta di manutenzioni ordinarie e straordinarie di piccola entità, n.d.a) Successivamente alle ore 19:30/20:00 ho accompagnato a Prato la signora Antonietta, la quale esegue le pulizie a casa. Da Prato sono tornato verso le 21:00 e quindi non sono più uscito. Ieri, 10 corrente, sono uscito di casa alle ore 8:00 e sono andato a prendere Antonietta…” Da verifiche effettuate successivamente si appurò che Salvatore aveva fornito come alibi quello di una prostituta di nome Luisa Meoni di cui torneremo a parlare più nel dettaglio quando arriveremo cronologicamente agli ultimi mesi del 1984.
Facile è comprendere come le indagine girino attorno alla famiglia Vinci e come il duplice omicidio del 1968 venga considerato la chiave di volta dell’intera inchiesta. Francesco Vinci continua a rimanere in carcere pur essendo evidente la sua estraneità ai fatti collegati all’omicidio dei due tedeschi e di fronte all’ennesimo confronto con il giudice istruttore Rotella, che cercava di capire se esistessero legami di parentela tali da indurre qualcun altro a commettere un nuovo duplice omicidio pur di vederlo scarcerato, continua a dichiararsi innocente non capendo perché Stefano Mele insista con le proprie dichiarazioni.
Nel frattempo Della Monica e Vigna firmano un mandato di cattura per Antonio Vinci che, pur essendo uscito incolume da una perquisizione domiciliare, si sarebbe fatto cogliere in flagranza di reato mentre trasportava una valigia piena di armi non denunciate. Il giovane Vinci si giustificherà dicendo che le armi non erano di sua proprietà, ma che le aveva solamente trovate casualmente ed aveva deciso di farci un po’ di soldi nel rivenderle; giustificazione accettata dalla corte che settimane più tardi lo processerà dichiarandolo estraneo ai fatti. Ma non è questo il punto, la cosa importante sta nel fatto che la procura si muove sulla pista sarda e vuol vedere le differenti reazioni dei vari protagonisti una volta reclusi in carcere; ciò che interessava agli inquirenti era mantenere agli arresti Francesco e contestualmente trovare un motivo per arrestare anche il nipote Antonio.
Mentre Francesco e l’amato nipote Antonio sono entrambi reclusi, con la speranza che prima o poi cedano raccontando qualche verità, Stefano Mele, altro elemento chiave della vicenda, viene nuovamente convocato dagli inquirenti nel mese di gennaio del 1984. E’ in uno di questi confronti che Stefano Mele in buona sostanza ritratterà su Francesco Vinci ammettendo di non ricordare più nulla di quella sera del 1968.
A questo punto gli inquirenti provano a cambiare strada e interrogano il fratello di Stefano Mele, Giovanni. L’interrogatorio scatta a seguito di alcune segnalazioni relative a strani comportamenti tenuti da Giovanni con alcune donne, in particolare con una tal Jolanda che riferisce ai carabinieri di come il Mele ami fare l’amore in auto nei pressi di un cimitero abbandonato, di sapere che è in possesso di un grosso coltello e di come si vanti delle grandi dimensioni del proprio pene.
Il 24 gennaio fu eseguita una perquisizione a casa di Giovanni Mele, che dalla morte della sorella Antonietta condivideva con il cognato Piero Mucciarini. Furono trovate corde, riviste pornografiche, lame di varie dimensioni tra cui due bisturi e piantine delle colline fiorentine con zone contrassegnate e appunti del tipo “1 dicembre, luna piena, giorno favorevole”. Contestualmente fu sequestrato al fratello Stefano un biglietto stropicciato da lui conservato nel portafoglio con la scritta: “RIFERIMENTO DI NATALE RiguaRDO LO ZIO PIETO Che avesti FATO il nome doppo SCONTATA LA PENA come RisuLTA DA ESAME Ballistico dei colpi sparati”. Fu chiesto a Stefano Mele chi avesse scritto quel biglietto. “Il biglietto l’ha scritto mio fratello….quella notte con me erano tutti e due, mio fratello Giovanni e Piero…..E’ vero che il bambino vide il Mucciarini sul luogo del delitto….Dopo il delitto gli altri due se ne tornarono con la macchina, io invece accompagnai il bambino…”
Il 25 gennaio 1984, in sede di conferenza stampa, gli inquirenti annunciarono l’imminente scarcerazione di Francesco Vinci (imminente, ma non immediata) ed il mandato di cattura per Giovanni Mele e per il senese Piero Mucciarini accusati di essere gli autori del duplice omicidio del 1968 e sospettati di tutti gli altri duplici omicidi attribuiti al mostro di Firenze. Sono in ordine il quarto e quinto “mostro” ad essere sbattuti in prima pagina e mentre il giudice Rotella dichiarava che i fiorentini avrebbero potuto dormire sonni tranquilli, dal secondo piano del tribunale di Piazza San Firenze il Procuratore Carabba lo smentiva con un invito ai giovani a stare attenti a non prendersi colpi di fresco la sera in campagna. La spaccatura tra gli uffici del Giudice Istruttore e quelli dei Sostituti Procuratori stava mostrando i primi segni di scarsa reciproca tolleranza. Le prime rotture si sarebbero trasformate in faglie non risanabili negli anni a seguire e quelle stesse crepe sarebbero divenute voragini dove far precipitare, senza alcun motivo, tutto l’impianto investigativo sulla pista sarda.
Sospendiamo il racconto che è pieno inverno e con tre persone, legate al delitto del 1968, in carcere. Nella prossima puntata vi racconteremo di alcune strane morti che colpirono Firenze proprio tra il 1983 ed il 1984. Nel frattempo ci apprestiamo a fare l’ennesimo spostamento tra le colline fiorentine. Torniamo nel Mugello, dopo la prima sosta del 1974, con un viaggio lungo 10 mesi , 52 chilometri e la sensazione di essere in procinto di raccontare il momento più orrendo di tutta questa vicenda, l’apice di una follia ormai inarrestabile.
Andrea Ceccherini
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