A Siena arriva Maria Grazia Calandrone: “Sbagliato parlare di vittime di violenza. Le parole generalizzate fanno male”

Si apre il festival organizzato dall’Università per Stranieri di Siena, “Interfest – Spazi aperti, spazi chiusi”. È questo il payoff della tre-giorni promossa dall’ateneo. Ospite della rassegna è Maria Grazia Calandrone, scrittrice e poetessa, intervistata dall’ex rettore Pietro Cataldi. “Spazi aperti, spazi chiusi”: in relazione alla sua scrittura, che cosa significa?

“La mia scrittura è fatta soprattutto di spazi attraversati. È un continuo passaggio tra spazi aperti e spazi chiusi, alla ricerca di documenti, di storie, di persone – e soprattutto delle interazioni tra le persone. Il panorama, lo spazio, è sempre uno dei protagonisti dei miei libri”

Raccontare molto di sé non è facile. Nei suoi libri c’è tanto della sua vita. È una forma di esorcismo?

“È un modo perché il dolore diventi utile. Un modo per dire a me stessa e agli altri: ‘Non sei solo, stiamo attraversando tutti la stessa acqua’. Credo che questo sia l’unico modo sensato di stare al mondo: fare questo viaggio insieme. Le storie che scrivo, anche se partono dalla mia biografia – c’è la storia di mia madre, o meglio delle mie madri – riguardano tutti. In tutte le famiglie c’è una Lucia, e in tutte le donne c’è un rapporto complesso con la madre, anche quando sembra risolto o armonioso. E poi c’è stata una Consolazione: questo è il nome della mia mamma adottiva. Anche il mio ultimo libro, che racconta una storia d’amore fra due donne, parla di qualcosa che appartiene a tutti: l’amore lo conosciamo tutti”.

 

 

Lei è considerata una delle voci più autorevoli della narrativa italiana contemporanea. Quanti dei suoi lettori le scrivono riconoscendosi nei suoi libri?

“Molti. Mi raccontano frammenti delle loro vite, che si sono rispecchiati – volontariamente o meno – in quello che ho scritto. Soprattutto nella storia di Lucia: in ogni famiglia c’è una Lucia. Lucia significa un matrimonio combinato, infelice; significa un sopruso, semplicemente in quanto donna; e significa, comunque, una voglia di riscatto e di libertà. Una forza misteriosa, che non si capisce bene da dove venga, ma che c’è”.

Quando scrive, sente di esprimere davvero tutto quello che ha dentro?

“Devo dire la verità: io non è che mi pensi molto. Soprattutto con quest’ultimo libro, che è un libro-mondo – dentro ci sono gli anni Settanta, la mafia di Nuova Ostia, l’amore – mi sembra di aver detto gran parte di ciò che sento e penso, soprattutto sulla contemporaneità”.

Parliamo di donne, di storia, di contemporaneità. Qual è il pensiero che oggi lascerebbe a chi la segue, a chi l’ascolta, riguardo al rapporto con l’amore, con gli altri, con sé stessa?

“Sono stata interrogata spesso sulla questione della violenza sulle donne, e c’è una parola che porta fuori strada: ‘vittima di violenza’. Le donne non sono vittime di violenza: le donne subiscono violenza, ma non da vittime. E un’altra cosa che mi sento di dire è che, quando si dice a una donna che si trova in una relazione perturbata, di codipendenza, ‘vattene’, si aggiunge al fatto che subisce violenza anche la colpa di non riuscire ad andarsene. Perché evidentemente, se una donna – così come un uomo – sta in una relazione di quel genere, è perché non può andarsene. Quindi credo che, nel caso capiti una storia così, sia importante capire le ragioni caso per caso, non generalizzare, non ideologizzare. Bisogna stare dentro, stare dentro l’anima delle persone, che sono ciascuna un mondo. Per cui posso dire questo: mettiamoci in ascolto, piuttosto che dare giudizi astratti”.

Katiuscia Vaselli