Nelle sue bellissime “7 lezioni sul pensiero globale” Edgar Morin ci ricorda che “Homo sapiens è solo un polo, l’altro polo è Homo demens, l’uomo delirante”. Un’affermazione, questa, che dopo Freud e dopo Foucault, può suonare strana soltanto a pochissimi lettori. La follia, infatti, viene ormai comunemente riconosciuta essere una delle tante possibilità dell’umano. Ma non sempre è stato così. La Stultifera navis, il battello costipato di folli reso immortale dal pittore fiammingo Bosch sullo scorcio del Quattrocento, le prime case di internamento, costruite nel XVI secolo dove un tempo c’erano i lebbrosari, gli ospedali psichiatrici, che hanno istituzionalizzato la segregazione, ne offrono ampia e tragica testimonianza.
La follia, infatti, percepita e considerata come la negazione stessa della Ragione, a lungo è stata o espulsa dalla polis o confinata ai suoi margini estremi, quasi che il non offrirsi alla vista dei cosiddetti normali (i sapientes) fosse sufficiente a contestare l’esistenza – la colpa, la vergogna – dei cosiddetti pazzi (i delirantes). Il prezzo, in termini di vite umane, di quest’opera di occultamento / disconoscimento è stato enorme: in manicomio, si entrava, e non si usciva più; in manicomio, inesorabilmente, la persona scadeva al livello di cosa, perché come una cosa era trattata; in manicomio, da ultimo, come ha scritto un grandissimo psichiatra, Eugenio Borgna, “ancora venticinque anni dopo la scoperta e la utilizzazione di farmaci antipsicotici, antidepressivi e ansiolitici, si continuava a ledere la dignità e la sensibilità dei pazienti”. È per questo che ogni discorso relativo all’istituzione manicomiale è sempre un discorso di morte, morte del corpo, morte dell’anima.
Ed è sempre per questo che ogni parola spesa per chi ha vissuto quella drammatica esperienza è sempre una parola spesa per tutti coloro che dalla follia sono stati lambiti, nel gorgo della follia sono stati risucchiati, a causa della follia sono stati privati del tepore e dell’abbraccio del mondo. Come Fernando Nannetti, nato a Roma nel 1927 e rinchiuso in manicomio, prima nella stessa capitale, poi a Volterra, alla cui storia si è liberamente ispirata Alessandra Cotoloni nel suo ultimo romanzo, “Il diario di pietra” (prefato da Alessandro Meluzzi), che dà voce, con grande senso della misura, sia all’orrore della reclusione sia all’inesausto bisogno del paziente-vittima di esprimersi, comunicare, gettare ponti verbali, nonostante tutto, al di là di tutto. Perché anche la follia e la parola, non diversamente dall’equilibrio mentale e dal silenzio, sono due maniere – questa la tesi di fondo del libro – di abitare l’umano. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale.
“‘Signora Nannetti, suo figlio Fernando?’. La donna alzò appena lo sguardo, seduta in cucina con i gomiti appoggiati al tavolo del ripiano di legno, indicò con un gesto della testa la stanza dove il piccolo riposava. Non ebbero cura nel sollevarlo dal letto, tanto che il bambino si svegliò di colpo, gettando un urlo che andò a scaraventarsi, infrangendosi, contro i muri scialbi e sporchi della casa. Passando davanti a Concetta, Fernando la guardò rassegnato, come se già avesse presagito il destino che la vita aveva riservato per lui. Non allungò nessuna mano, lasciò che i due signori, alti, snelli, mori di capelli e dallo sguardo spento, lo sollevassero in collo. Li osservò a lungo, in silenzio, l’immagine dei due rimase per sempre nella sua mente. Presero le poche cose che gli appartenevano: una giacchetta nera dai gomiti sdruciti e un paio di calzoncini corti. Le scarpe le trovarono disposte ordinatamente accanto all’unica poltrona della stanza. Uno dei due, dai modi sbrigativi, si frugò in tasca alla ricerca di una piccola busta bianca, la dette alla donna che quasi con fatica allungò la mano. Non disse nulla Concetta, pareva che la sua voce si fosse ammutolita per sempre”.
a cura di Francesco Ricci
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