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Andrea Friscelli, Il villaggio delle anime perse

Finché si guarda alla normalità non come a una semplice maniera di esistere, bensì come “la maniera”, tutto ciò che è devianza, scarto, infrazione, scivola inevitabilmente nei territori dell’incomprensibile o dell’inaccettabile. Affidare i pazzi a una imbarcazione – la “Stultifera navis” – o recluderli in un manicomio, sono state a lungo le soluzione escogitate dalla polis per espellere dal proprio interno ciò che era percepito essere il male, la colpa, l’onta. Allontanare da sé l’irregolarità per riconfermare alla collettività quella che è la regola, cacciare l’incontrollabile per esercitare il controllo: sorvegliare ed escludere, tirare su muri e serrare portoni. La conseguenza è stata che insieme a quelle esistenze se ne è perduta anche la memoria, quasi che a un tratto la terra si fosse aperta e avesse ingoiato uomini e donne. Ecco allora che restituire voce a questi fantasmi (a tutti i fantasmi) della Storia diviene un grande gesto d’amore e, nel caso delle malattie mentali, anche un imperativo per chi, ad esempio, ha fatto propria la lezione dei fondatori dell’indirizzo fenomenologico della psichiatria, come Jaspers e Binswanger, che sempre sono andati alla ricerca dell’ “umanamente comune”. Andrea Friscelli col suo ultimo lavoro, pubblicato da Betti e intitolato “Il villaggio delle anime perse”, fa del recupero di alcune delle cartelle cliniche conservate nel manicomio di Siena il punto di partenza per ricostruire vite e vissuti, per dare un nome e un volto a chi è stato fatto scivolare al rango di semplice numero (Giulio, 455, Don Serafino, 1714, Giovanna, 270, Giuseppa 369), per regalare una narrazione – un tempo, uno spazio, un evento – a chi di una narrazione mai è stato né soggetto né oggetto, per, infine, mostrare che la barriera che separa i pazienti dal resto del monte non è insormontabile. Il passo che segue è tratto dall’introduzione nella quale Andrea Friscelli illustra la genesi e la finalità del libro.

“Ho cominciato a scrivere le storie del San Niccolò pensandole come un’attività di sostegno alla campagna per il recupero del quartiere Conolly. Ritenevo che a qualcuno potesse interessare il racconto delle vicende umane di persone che lì dentro (non solo al Conolly) hanno soggiornato a lungo e spesso lì dentro sono morte. L’interesse riscontrato è stato tanto e anche io piano piano mi sono appassionato. Così ho continuato anche dopo la fine della raccolta firme e ora propongo una selezione delle storie più interessanti. Una goccia nel mare: ventidue storie su un universo di quasi cinquantamila cartelle che formano il corpus più importante dell’Archivio Storico del vecchio Manicomio. Vorrei cominciare questa introduzione con una nota rivolta al lettore. Le considerazioni che seguono saranno condotte utilizzando soprattutto la prima e la terza persona plurale: “noi” e “loro” come in una specie di coro in cui due schiere contrapposte si parlano e si rispondono. Vorrei prima di tutto chiarire chi, a mio parere, rientra in quel noi. Semplicemente tutti. A partire dalla società intera nelle sue varie articolazioni politiche e sociali, da tutti coloro che sono stati addetti ai lavori, essendo impiegati negli ospedali psichiatrici, dalla famiglia intesa come cellula costitutiva di una società, a tutti quelli che a qualsiasi titolo si sono occupati di loro. La vorrei cioè usare nel modo più estensivo possibile: “nessuno si senta escluso” – potrei dire citando De Gregori. Ed invece chi sono “loro”? Tutti quelli che per varie ragioni sono finiti in un manicomio e lì dentro hanno vissuto e spesso sono morti”.

Andrea Friscelli, Il villaggio delle anime perse, Betti, Siena 2018

Francesco Laezza

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