L’armonizzazione del nostro sistema tributario con quello degli altri Paesi aderenti alla Comunità Economica Europea avviene negli anni ’70, con l’introduzione dell’IVA. Tassazione omogenea sugli scambi di beni e servizi che si traduce in una forma unica di prelievo sui consumi. Dal 1973 ad oggi l’aliquota ordinaria IVA è aumentata per ben 9 volte. Eppure non sempre all’aumento è corrisposto un maggior gettito fiscale nelle casse dello Stato.
Commercianti, artigiani, imprenditori, professionisti alle prese con una spirale che racconta sempre la stessa storia: minori consumi delle famiglie. Inevitabilmente l’aumento del prelievo indiretto si rifletterà sui prezzi e, quindi, in un minor potere di acquisto. Ma se le famiglie consumeranno meno, diminuirà la produzione di beni e servizi e, se diminuirà significa che ci sarà bisogno di meno lavoratori. Quindi meno lavoro corrisponderà a meno reddito nelle tasche degli italiani. Ancora una volta da una parte ci sono gli effetti sull’economia reale, dall’altra l’andamento del rapporto debito/PIL. Qualcosa non mi quadra. Il PIL è al denominatore; per ridurre il rapporto il PIL deve aumentare. Però se anche non cresce, ma diminuisce il debito, che sta al numeratore, i conti potrebbero tornare.
Tuttavia, per diminuire il debito occorre tagliare la spesa pubblica, che è una componente del PIL; quindi scende il debito, ma diminuisce anche il PIL e allora siamo alle solite: se il PIL non cresce non se ne esce.
L’altro aspetto è la percezione di chi nel mercato ci vive e su questo non ci sono dubbi: si registra un peggioramento del clima di fiducia di consumatori e imprese nel mese di maggio (da 107,4 a 105,4, consumatori e da 106,8 a 106,2 imprese – Istat). L’aspettativa che la crisi sia superata e che finalmente si stia invertendo la tendenza in positivo non c’è. Come può tornare con la sterilizzazione dell’Iva?
In pratica all’art.9 del Decreto Legge 50/2017 (manovrina correttiva) non si disinnescano le clausole di salvaguardia dell’Iva che scatterebbero nel 2018. Semplicemente, con la nuova previsione normativa, dal 1° gennaio 2018 l’aliquota ridotta del 10% passa all’11,5% per salire poi al 12% nel 2019 e al 13% nel 2020. L’aliquota ordinaria, invece, sale al 25% nel 2018, poi nel 2019 diventa 25,4%; nel 2020 24,9% e nel 2021 di nuovo 25%.
Insomma, per evitare ciò il Governo deve trovare soldi da qualche altra parte. Le strade prospettate sono tagli o nuove tasse, dal momento che l’impegno con Bruxelles è ridurre il deficit strutturale per portarlo vicino allo zero. Il problema è che si continuano a tartassare categorie che sono la linfa per la ripresa economica. Non finirà la richiesta di mettere a posto le finanze pubbliche nel nome dell’unione monetaria.
E l’entrata del Fiscal Compact a gennaio 2019 si avvicina. Per quella data le regole da rispettare saranno ancora più rigide. L’ironia è che l’inventore della formula del 3% ha dichiarato candidamente che tale numero è stato deciso in meno di un’ora, senza alcuna base teorico-scientifica.
Guardando il nostro Paese, in fondo alla classifica della crescita, io credo che l’unica parola d’ordine dovrebbe essere ridurre le tasse o aumentare la spesa e, non, il contrario. Che in una parola vuol dire più deficit.
Il passato ha già dimostrato che diversamente non funzionerà.
Maria Luisa Visione
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