“Per l’economia italiana sono stati gli anni peggiori della sua storia in tempo di pace. Le conseguenze della doppia recessione sono state più gravi di quelle della crisi degli anni Trenta”.
Leggendo le Considerazioni finali alla Relazione annuale della Banca d’Italia 2016 appena pubblicata, mi colpiscono molti aspetti, ma questo passaggio, in particolare, mi arriva dritto al cuore e allo stomaco. Forse perché sottolinea le difficoltà reali che in questo momento storico vive il nostro Paese. O, forse, perché scritto nero su bianco, ha una sua forza, dirompente, per me.
Il nostro PIL è ancora inferiore del 7% rispetto al livello di inizio 2008. Ora, mettendomi nei panni dei lettori, mi chiedo: ma, insomma, il PIL non era in ripresa? Se confrontiamo il dato con il livello minimo raggiunto lo è. Funziona allo stesso modo del tasso di disoccupazione; nel 2008 era pari a 6,7%, poi è arrivato nel 2014 al 13% per toccare attualmente l’11,7%. Così come, se ripercorriamo la storia economica italiana dal 2008 ad oggi, tutte le cause supportate da numeri incontrovertibili tornano. Tanto che, le maggiori debolezze di questi anni da dimenticare sono sempre le stesse per il Governatore: debito pubblico e crediti deteriorati. In altri termini, un indebitamento in salita, complice la crisi e la solita mancata crescita del PIL e bilanci delle banche piuttosto vulnerabili.
Soffermiamoci, però, su due peculiarità cruciali evidenziate nelle Considerazioni.
La prima è relativa al lavoro; la seconda riguarda “l’incompletezza della costruzione europea specie in campo economico e finanziario”. Entrambe, dipendono dalla volontà politica. E riuscire ad integrare le scelte politiche dei diversi interessi dei singoli Paesi ha mostrato tutte le sue fragilità.
Sul lavoro, ciò che rileva non è solo il dato quantitativo. Si è ampliato il divario tra la qualità del lavoro offerto e l’aspirazione del lavoratore, tra le condizioni di precarietà e il desiderio di stabilità lavorativa, diminuendo progressivamente gli standard minimi di qualità della vita. Un dato per tutti: alla fine del 2016, tra i giovani con meno di 30 anni, circa il 25% (un terzo nel Mezzogiorno) non aveva lavoro né partecipava a un percorso formativo. E’ vero che incidono i processi educativi e il ritardo nell’accogliere la rivoluzione digitale e tecnologica in atto. Tuttavia, se solo volessimo tutelare il nostro patrimonio artistico e culturale, il lavoro non mancherebbe di certo. Ma occorre che lo Stato aumenti la spesa pubblica nell’interesse generale.
Sulla seconda peculiarità si ammette che senza un bilancio comune è stato difficile sostenere la ripresa. Si evidenzia come la frammentazione dei poteri tra numerose autorità non consente di intervenire in maniera efficace e tempestiva. Ma, alla fine, di fronte alla sfida impegnativa di consolidare il cammino di ripresa appena iniziato, si afferma: “I cambiamenti richiederanno tempo, impegno, sacrifici”. Perché dal suo canto la Banca d’Italia vuole rafforzare il suo ruolo e aumentare la condivisione delle responsabilità sul piano europeo.
Io, invece, credo che se sono stati gli anni più duri in tempo di pace, chiedere altri sacrifici non porterà a nessun risultato e a nessun consenso. Nel nome dell’innovazione, della stabilità dei prezzi, della competitività del nostro Paese o di qualsiasi altra necessità, basta sacrifici.
Maria Luisa Visione