Ci sono tanti compagni di viaggio. Alcuni ce li scegliamo, altri ce li troviamo a fianco, magari nel seggiolino accanto in un treno, su un autobus o un aereo. E non puoi cambiare posto. Oppure in una strada che devi percorrere per forza. Quella strada non ti piace, magari, e nemmeno sai dove ti porterà e proprio non vorresti a fianco chi ti sta accompagnando. Così abbiamo deciso di dare voce a tutte quelle persone che si sono trovate “per destino” a compiere una parte del viaggio della vita con quelle che vengono definite malattie rare, malattie invisibili, malattie croniche. Lo abbiamo fatto con due interviste – la prima al professor Bruno Frediani (potete rileggerla qui) e una alla professore Silvia Sestini (qui), rispettivamente direttore del Dipartimento di Scienze mediche e della Reumatologia dell’Aou senese e presidente della Aimaku, l’associazione che segue chi è affetto da Alcaptonuria
Mi chiamo Barbara Cerri, ho 60 anni e circa tre anni fa mi è stata diagnosticata la fibromialgia. Sono nata a Lucca, ma vivo a Pisa dal 1972.
Lavoro, in qualità di logopedista, in un Istituto Scientifico di Neuropsichiatria Infantile.
Quando ho ricevuto la diagnosi ho pianto, nonostante non sia incline alle lacrime. C’è da aggiungere però, a mia parziale discolpa, che non l’ho fatto per rabbia, dispiacere o sconforto; erano lacrime di gratitudine.
Gratitudine verso la dottoressa che mi ha comunicato, usando parole sfogliate con la delicatezza di chi apre un fiore di loto, cos’era quella mosca cieca alla quale giocavo da anni, piedi scalzi e mani nude, in un cortile seminato a schegge di vetro.
Me l’ha detto con un sorriso che ricorderò: non quello supponente degli altri medici, i “prima di lei”, i quali , dopo avermi sezionata con scarsa convinzione già forti di certezze basate sul pregiudizio, hanno concluso i loro “approfondimenti”, tutti colpevolmente negativi, con il solito imputare la processione di sintomi alla stanchezza, allo stress, al nervosismo, alla sindrome premestruale prima/ alla menopausa poi, alla depressione e chi più ne ha più ne metta. No.
Lei mi sorrideva con l’espressione di chi sa come sei arrivata sino lì, trascinandoti dietro un corpo mai dimentico di segnalarti la sua presenza e che, per ficcartelo bene in testa, lo fa premendo costantemente sull’infallibile tasto mnemonico del dolore.
Lei lo vedeva il relitto che aveva di fronte, nonostante il vestito a fiori e lo smalto e il rossetto e i sandali con il tacco alto (che sia alto o basso, zoppico comunque e allora tanto vale metterci un pò di charme).
Mi ha fatto dono di quel sorriso e di una parola, “fibromialgia”, dove ho potuto appoggiare la matassa di fili elettrici in costante corto circuito che mi avvolge.
Quella parola racchiudeva l’essenza di ciò che mi stava facendo così male; la volevo conoscere o, come si dice in certe circostanze, “ volevo guardarla in faccia”, senza intenzioni bellicose. A volte, in tali circostanze, si fa uso scellerato di termini presi a prestito dal lessico della violenza: “combattere” “lottare” “distruggere”.
Non mi piace, lo trovo pericoloso e fuorviante.
Il nome serviva per chiamarla, per iniziare una comunicazione con lei, per ascoltarla. “Cosa stai cercando di dirmi?” È stata la mia prima domanda .
La ribattezzo da subito “la fibro” perché mi sembra di ridurre le distanze; dobbiamo convivere ed è necessario venirsi incontro.
Quando ho cose irrinunciabili da fare lei deve venirmi dietro, anche se la sento imprecare, mentre incespico e mi cadono gli oggetti dalle mani e mi si sciolgono le parole nelle mente. Se esagero e alza la voce mi fermo; è arrivato il momento di ascoltarla.
Quando morde forte non cerco di scacciarla, la accolgo senza arrendermi; semmai mi abbandono.
Anche arrendersi è una parola prestata da un vocabolario belligerante , è una resa dopo una battaglia; abbandonarsi, invece, è un atto volontario non c’è alcuna sconfitta ma un lasciarsi andare come accade nel mare, quando ci facciamo trasportare dalle onde senza opporre resistenza.
Così lascio che mi trapassi con le sue schegge e le sue lame: arrivano i crampi , le fascicolazioni, la mente si annebbia, aumentano gli acufeni, gli abiti diventano cilici, provo una stanchezza midollare, un dolore diffuso come un basso continuo intervallato da punte di acciaio che mi mandano in frantumi, mi fanno male persino i capelli.
Attendo che passi; mi aiutano gli animali in questo. E anche gli alberi.
Li osservo con più attenzione, da quando lei mi abita, cerco di imparare; la loro pazienza mi incanta, prima ci facevo meno caso.
Quando sto molto male cerco di non raccontarmi cosa sento, provo a immaginare come sarebbe questo dolore se fossi il pioppo del giardino o il mio cane, che mi dorme accanto con un respiro di pace.
Mesi fa, non saprei dire per quale arcano motivo, si è addormentata per qualche ora. Ho assaporato la meraviglia della dimenticanza, senza cadere nella trappola di sostare nel rimpianto della mia vita “prima”.
Sono sempre presente a me stessa, mai passiva, perché consapevole di viaggiare al confine con la disperazione.
Non domando al futuro come sarebbe la mia vita senza la fibro, non mi piacciono le speculazioni oziose; mi interrogo invece ogni giorno su come può essere “la vita insieme” e lo faccio istante
per istante mentre cerco questo equilibrio, questo muto rispetto, verso me stessa e verso di lei, parte di me.