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I medici della peste e le raccomandazioni: dal 1348 al Coronavirus

Nel 1348 Siena (come il resto d’Italia, d’Europa e ben oltre se si pensa che le prime testimonianze scritte di questo male si trovano nelle comunità cristiane del Kirghizistan, sul lago di Ysykkol, e risalgono al 1338) si trovò davanti ad un fenomeno così drammatico ed inaspettato nella sua forza che le reazioni furono le più svariate e folli: ci fu chi sosteneva che fosse stato offeso Dio e, pertanto, si dette vita ad atti di pietà collettiva in seno alla Chiesa; non mancò chi si dedicò a pratiche magiche e superstiziose di ogni genere; e poi ci furono i più razionalisti che si aggrapparono al sapere medico e scientifico.

In realtà la medicina del tempo era impotente di fronte alla peste non conoscendo né cosa la provocava né, tantomeno, le modalità di contagio (calmi, non si stanno facendo paragoni: la peste proviene da un bacillo, non da un virus, come prima cosa).I medici credevano la peste si trovasse nell’aria “corrotta” e tale corruzione veniva generalmente attribuita ad una cattiva congiunzione degli astri.Che l’origine del flagello andasse ricercata negli astri ce lo spiega, ad esempio, Gentile da Foligno, il primo a scrivere un libro sull’argomento ( prima di morire lui stesso di peste nel giugno del 1348).

Gentile da Foligno racconta, addirittura, di una congiunzione particolarmente sfavorevole che si era verificata nel marzo del 1345: questa aveva causato un sommovimento dell’aria ed esalazioni provenienti dalla terra e dal mare erano risalite in alto surriscaldandosi e per poi ridiscendere sulla terra come vento corrotto, come “soffio pestifero”.Il cronista fiorentino, Giovanni Villani vedeva una possibile concausa nell’apparizione di una non meglio definita cometa: “Nel detto anno, del mese d’agosto, aparve in cielo la stella commeta […] e ingenerò grande mortalità ne’ paesi che il detto pianeto e segno signoreggiano; e bene il dimostrò in Oriente e nelle marine d’intorno, come dicemmo adietro”.

Come lui Jean de Venette notava che la peste era cominciata a Parigi contemporaneamente all’apparizione di una stella.E Boccaccio, in apertura del Decameron, scrive che la pestilenza: “per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione fu mandata sopra i mortali”.

Incapaci, dunque, di comprendere le cause di una malattia mai vista prima (il termine “peste nera” o “morte nera” non era stato usato per le pandemie del passato né verrà ripetuto per le epidemie successive: alcuni storici hanno pensato che si volesse alludere con questo nome alla colorazione cianotica del corpo del malato, altri al colore dei bubboni, altri ancora alla condizione di lutto diffusa) i medici davano, di fatto, indicazioni generiche.

Raccomandavano, così, di non darsi ad una eccessiva alimentazione (e qui va bene, solo che ora, a.D 2020, chiusi in casa come siamo ingrasseremo 10 chili!), di evitare una smodata vita sessuale (gentine io vivo da sola con Serafo e so’ tranquilla ma voi, per il motivo appena detto, vedete di fare “a modino”), ripetevano fino alla nausea di evitare luoghi affollati (vi suona familiare?) e, soprattutto, il contatto con i malati (ça va sans dire).

Il medico bolognese Tommaso del Garbo sosteneva che il primo e più sicuro rimedio era quello di fuggire dal luogo in cui imperversava la pestilenza e recarsi in un posto dove l’aria “fosse più sana”. E aveva ragione: in campagna la peste fece relativamente meno danno che nelle città affollate, ma il popolamento delle campagne del Trecento era fatto di poderi disseminati e, spesso, molto distanti tra loro. Comunque, bada caso, è questa la soluzione che permette alla brigata dei giovani fiorentini di quel birbo di Boccaccio di salvarsi dal contagio.

A coloro che rimanevano in città, soprattutto sacerdoti, medici e notai che per missione o lavoro dovevano necessariamente recarsi nelle case dei malati, veniva consigliato, prima di entrare in camera, di aprire porte e finestre in modo da far cambiare l’aria (“è ‘l lor alito velenoso, per mezzo del quale l’ aria della camera diventa putrida e infetta”, si sosteneva).

Una delle altre raccomandazioni mediche sì che vi suonerà familiare: è necessario lavarsi frequentemente le mani (che vi dicevo?) ma, poi, si continua: bisogna lavarsi anche il naso, la faccia e la bocca con aceto ed acqua rosata e tenere in bocca due granelli di garofano (domani, se le erboristerie non saranno chiuse, correte a cercarli! Non serviranno a una cippa, ma quelli che vi avanzano potrete metterli nell’arrosto).

In età moderna i medici, per proteggersi, iniziarono ad utilizzare una maschera simile alla testa di un pellicano. In realtà, nel lungo becco mettevano erbe profumate che servivano ad attenuare, se non a contrastare, gli effetti dei miasmi. Successivamente l’indumento venne arricchito con una tunica cerata lunga, con i guanti per non entrare in contatto diretto con la persona infetta, con un bastone per poter sollevare le coperte dei malati e con gli occhiali, indispensabili per evitare il contagio che si contraeva dalle congiuntive, come sosteneva il medico francese Charles de Lorme nel XVI secolo.

Questo abbigliamento è diventato tristemente famoso durante la peste del 1630 a Venezia (che venne colpita in modo estremamente duro) tanto che, nei secoli successivi, “il medico della peste” è diventata una delle maschere del Carnevale.Così, per assurdo, alla fine, diventarono proprio gli uomini di scienza coloro che vagavano per le strade con un aspetto cupo e inquietante, come veri e propri uccelli del malaugurio.

Maura Martellucci

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