L’epoca che viviamo non è più l’epoca dell’intermediazione. La profonda crisi che stanno attraversando i sindacati e i partiti ce lo ricorda ogni giorno. Probabilmente la crisi di tali organi intermedi si spiega – ha ragione Bauman – anche col fatto che siamo divenuti tutti più scettici circa i possibili benefici derivanti dal mettere insieme le forze: se vogliamo ottenere qualcosa – di questo siamo ormai persuasi – dobbiamo affidarci al nostro ingegno e alla nostra iniziativa. Ma la ragione autentica, io credo, trascende l’ambito meramente psicologico (cosa sente, di cosa è convinto il cittadino) e investe l’aspetto assunto col tempo dalla società (quali abilità vengono richieste dal mercato, di che natura sono le relazioni interpersonali, quale rapporto si è venuto instaurando tra la politica, legata a un territorio, e il potere, sempre più globale): quanto essa diviene sempre più liquida, infatti, tanto più essa tende a demolire ciò che è solido, strutturato, duraturo.
È per questo motivo che per sindacati e partiti personalmente non scorgo alcun futuro, e nutro dei dubbi anche sulla sopravvivenza della democrazia, per lo meno nella forma in cui l’abbiamo conosciuta e che l’etimologia ci ricorda. Proprio questa contemporaneità, che per comodità possiamo riassumere con tre parole, vale a dire “globalizzazione, tecnica, individualismo”, costituisce la cornice storica del discorso che Daniele Magrini svolge in relazione all’informazione e al mondo dell’informazione.
Lo fa all’interno di un denso e corposo saggio, edito da effigi e intitolato “È l’algoritmo, bellezza! Disintermediazione giornalistica, social media, egocrazia”. Se il titolo rimanda al cinema, rielaborando una battuta pronunciata da Humphrey Bogart, all’inizio degli anni Cinquanta, nel film “Deadline” (“È la stampa, bellezza! E tu non ci puoi fare niente!”), il sottotitolo suggerisce un’idea del contenuto del saggio sufficientemente precisa. I tre termini che incontriamo – disintermediazione, social, egocrazia – non devono essere considerati come tre tratti distinti e separati di un paesaggio storico-sociale che ci è familiare, poiché è quello in cui siamo immersi, quello in cui siamo certi di saperci orientare. Piuttosto questi tratti, se appaiono (forse) ancora sufficientemente distinti e distinguibili, non sono più né separati né separabili: a tal punto l’uno richiama l’altro, l’uno presuppone l’altro.
Daniele Magrini mette bene in evidenza che la crisi che i quotidiani e i telegiornali stanno attraversando, che attesta il venir meno, accanto all’intermediazione svolta a lungo dai sindacati e dai partiti, anche di quella svolta dai giornalisti, è strettamente legata alla diffusione dei social (3,5 miliardi il numero di utenti all’inizio del 2019) e alla cultura del narcisismo che essi promuovono, se è vero che anche un cantore della modernità digitale, come Alessandro Baricco, ha dovuto riconoscere che la Rete è un gigantesco incubatore del più grande individualismo di massa che l’uomo abbia mai sperimentato. Insomma, sui social si rinvengono le notizie, sui social si esprimono e si contrastano opinioni (in un rapporto assolutamente alla pari), sui social si ricevono “mi piace” – per le nostre parole, per le nostre fotografie –, sui social ci accorgiamo di “esistere” e di “esistere” anche bene, perché abbiamo un seguito, siamo apprezzati, sentiamo di valere. Accade a noi, accade ai politici: il rafforzamento dell’autostima ora passa da qui. E così avviene che la società dello spettacolo – la definizione è del grande scrittore peruviano Vargas Llosa –, ingenerando l’illusione di una falsa democrazia dell’intelligenza e della competenza – su ogni argomento, il parere di una persona è pari a quello di un’altra – finisce per ridefinire (cancellare?) anche la professione di giornalista, la cui attività di ricerca della notizia, verifica delle fonti, punto di vista, è considerata ora superflua ora dannosa: da solo io posso trovare le notizie, tantissime notizie, sul web, da solo io posso formarmi un’opinione al riguardo. Attenzione, però, – e Daniele Magrini lo sottolinea con lucidità, chiarezza, e, al contempo, evitando i toni apocalittici di chi ritiene che tutto oramai sia perduto, che non ci sia né salvezza né rimedio – lo “spettacolo” che va in scena sui social non è solamente una questione di celebrazione dell’io, di vanità, di delirio di onnipotenza, di trionfo dell’apparire sull’essere. Insomma, di individualismo esasperato. C’è un ulteriore risvolto, questo sì estremamente inquietante e pericoloso: il peso che gli algoritmi esercitano per conoscere ciò che gli utenti-elettori-consumatori vogliono sentirsi dire, vogliono sentirsi offrire. Chi conosce gli umori e i desideri delle masse, infatti, è destinato a indirizzarle e a comandarle, privilegiando la componente emotivo-viscerale del rapporto e della comunicazione rispetto quella logico-argomentativa. Il passo che segue è tratto dall’Introduzione.
“Essere in contatto sempre. Abbattendo le distanze fisiche e temporali. Ritrovare vecchi amici, scoprirne di nuovi. Innamorarsi perfino via Facebook e grazie ad un tweet. Scambiarsi idee, conoscenza, immagini, video, l’emozione di una scoperta scientifica, una poesia. Rimanere costantemente in comunicazione con il mondo, connessi h24; il dulcis in fundo della rivoluzione digitale. Questo i social avrebbero potuto essere: l’evoluzione di Internet nella modalità di accesso e di uso, più libera e completa. Solo che i social, come tutto il resto che sta nel capitolo dell’innovazione tecnologica, sono usati dagli uomini. E allora la deriva che, in buona parte, caratterizza i social, non sta nei social stessi, ma in chi li usa per comunicare odio e fake news. Che ci sia poi chi guadagna – le grandi web companies – proprio su questo business di degrado umano e che politici senza scrupoli ai social si aggrappino per nascondere la loro mediocrità, è un altro discorso, certamente oggi decisivo. Ma in principio i social non erano brutti, sporchi e cattivi. Gli uomini, che nei social si specchiano, li hanno resi tali. Le web companies li hanno trasformati in ciniche slot machines. Solo che adesso tutto questo va detto e scritto a chiare note, perché la rivoluzione in essere non riguarda solo la degenerazione dei rapporti sociali, ma la messa in discussione delle stesse modalità di confronto fra opinioni diverse. E quindi, in buona sostanza, la democrazia: l’acquiescenza di fronte ad ogni regime che sovverta gli equilibri sociali consegnando il potere a pochi, non ha mai portato bene. La rivoluzione digitale ha cambiato il mondo in meglio. Ma adesso, come per tante rivoluzioni, la tecnocrazia dilagante ha finito per concentrare un nuovo potere che va al di là e al di sopra degli Stati, nelle mani delle grandi web companies.”
Daniele Magrini, È l’algoritmo, bellezza!, Effigi, Arcidosso 2020
a cura di Francesco Ricci
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