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Dazi e salute, Montomoli: “L’impatto sulle nostre aziende si farà sentire. Ma gli Usa rischiano l’effetto boomerang”

Professore, lo scorso fine settimana è arrivata la lettera da parte del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Si parla di dazi del 30% sulle merci europee, con un focus anche sui prodotti farmaceutici. Quanto è preoccupante la situazione per il settore, considerando che la farmaceutica continua a essere il motore dell’export nel nostro territorio?

“L’amministrazione Trump non ha mai mostrato particolare sensibilità verso il settore farmaceutico. Va detto, però, che i dazi non colpiscono soltanto questo comparto. Al momento, non credo che il governo americano stia valutando nel dettaglio le conseguenze per l’industria biotecnologica e farmaceutica. È evidente che un dazio del 30% potrebbe avere un impatto rilevante. Tuttavia, guardando all’altro lato della medaglia, potrebbe danneggiare soprattutto i cittadini americani, perché comporterebbe un aumento dei prezzi e, di conseguenza, dei costi delle assicurazioni sanitarie, considerando che in America la sanità è quasi totalmente privata. Inoltre, una politica di questo tipo potrebbe spingere le attività di ricerca e sviluppo verso altri Paesi, come India o Cina. È vero che nel breve periodo si potrebbe monetizzare qualcosa attraverso le tariffe, ma sono convinto che, nel lungo termine, si rivelerebbe un fallimento, soprattutto per la politica a stelle e strisce”.

Quindi è una sorta di Giano bifronte: da un lato c’è un impatto diretto per chi produce, dall’altro ce ne è uno per i cittadini americani…

“Esatto. Però, nel caso di Vismederi va precisato che non produciamo farmaci, ma servizi. Offriamo test per verificare, ad esempio, se i vaccini sono immunogenici o meno. Quindi, i dazi non ci colpiscono direttamente. Ci riguarda però il clima di crisi e scetticismo che si sta diffondendo negli Stati Uniti verso i prodotti innovativi: biotecnologie, anticorpi monoclonali, vaccini, antibiotici. Probabilmente stiamo anche vivendo un effetto rebound post-Covid. Le politiche contrarie alla scienza e alla ricerca si stanno facendo sentire in modo piuttosto evidente. Sono comunque convinto che qualcosa dovrà cambiare, perché se si continua su questa linea, il rischio è concreto. Basti guardare a quello che sta accadendo in Texas, dove c’è un’epidemia di morbillo importante. Forse quella da sola non basterà a scuotere l’opinione pubblica, ma ci sono diversi virus emergenti di cui non si parla. Da quando c’è questa nuova amministrazione, ad esempio, non si sente più nulla sull’influenza aviaria, eppure i casi ci sono. Non vengono semplicemente raccontati. Il problema è che, appena uno di questi virus riaccenderà un focolaio epidemico, allora forse se ne parlerà di nuovo in modo più serio. Quello che mi preoccupa, quindi, non è tanto l’effetto diretto dei dazi sul nostro settore, quanto il clima di sfiducia verso i prodotti che, in realtà, ci salvano la vita”.


Esiste un sorta di “effetto Robert Kennedy jr”? È stato inserito in una posizione di rilievo per la salute pubblica, nonostante sia una figura molto controversa in questo ambito..

“Sì, esatto. E si è visto chiaramente. Non capisco perché si continui a non parlarne, visto che la linea ufficiale sembrerebbe voler oscurare certi temi. Ma basta andare su siti specializzati o fare una semplice ricerca su Google per vedere cosa sta succedendo in Texas: quest’anno ci sono stati più casi di morbillo che negli ultimi dieci anni. Purtroppo, c’è stato anche un decesso: un bambino è morto di morbillo. E, subito dopo, lo stesso Kennedy ha ritrattato, ammettendo che il vaccino è l’unica cosa che può salvarci la vita. Sono dinamiche geopolitiche complesse, difficili da capire fino in fondo. E noi preferiamo non entrare nella retorica, né cadere nel gioco dei complottismi – da una parte o dall’altra. Continuiamo semplicemente a fare ricerca. E sono convinto che, prima o poi, il valore del nostro lavoro tornerà ad avere un impatto concreto e positivo per la popolazione”.

Mi ricollego a quando, poche settimane fa proprio a Siena, si è tenuto il battesimo della rete europea del vaccino e l’evento inaugurale del Biotecnopolo. In quell’occasione si parlò di come per l’Italia questo particolare momento statunitense, fatto di dazi e scetticismo generale, possa essere un’opportunità per attrarre risorse e talenti dall’America. Cosa ne pensa Montomoli?

“Assolutamente sì. Stando a quanto riportano i media, molti scienziati – italiani e non solo – stanno lasciando gli Stati Uniti. Ho letto di centri di ricerca accademici ridotti all’osso, con ricercatori che ricevono lettere di licenziamento via e-mail. Se me lo avessero detto qualche anno fa, avrei pensato a uno scherzo. E invece c’è da piangere. Conosco personalmente diversi colleghi che lavorano negli Stati Uniti – uno a Seattle, uno a Washington, un altro a Baltimora – e tutti stanno valutando di tornare in Italia o comunque in Europa, dove ci siano condizioni migliori per lavorare. Mancano i fondi, manca la motivazione, si lavora in condizioni sempre più difficili. E allora ci si chiede: chi ce lo fa fare? Un tempo gli Stati Uniti erano un faro per la ricerca e lo sviluppo, oggi rischiano di diventare il “terzo mondo” del settore. E molti scienziati sono pronti a rinunciare a stipendi più alti pur di rientrare in un contesto che li valorizzi. È un’opportunità concreta, indubbiamente. Resta da capire se l’Italia sarà davvero in grado di coglierla: servono risorse, visione e volontà politica. Personalmente credo che saranno soprattutto i Paesi asiatici a sfruttare questa occasione. A Singapore, ad esempio, ho recentemente tenuto una lezione universitaria e ho visto con i miei occhi come si stiano attrezzando: hanno già strutture pronte per accogliere scienziati americani, con stipendi competitivi e qualità della vita molto alta”.

Marco Crimi

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