Dino Buzzati, Un amore

Dino Buzzati, Un amore, Milano, Mondadori, 2014.

“L’amore è sempre un problema, in qualunque periodo della vita dell’uomo”. Non c’è salvezza, non c’è rimedio. Niente da fare, niente da tentare. Solamente una pacifica accettazione dell’evidenza più accecante – il veleno è già in circolo – solamente una resa dolcissima e amara – un colpo dritto in pieno petto a spaccare il cuore –. Altro all’uomo non è concesso. Perché “l’amore è sempre un problema”, come scriveva l’immenso Carl Gustav Jung, perché l’amore è sempre “a losing game”, come sapeva e cantava l’inarrivabile Amy Winehouse. La quiete è già un morire, la tranquillità dell’anima è già indifferenza. L’amore-passione è catena e tempesta, angolo vivo e cerchio mai del tutto chiuso, ed è lì, attraverso quell’apertura che il timore della perdita s’insinua, che la paura di non essere più un intero – al suo posto frammenti, brandelli, cascate di note stonate – serra il respiro in gola e ci fa trasecolare, trascolorare, trascinare dubbi e domande. Nulla dura, nulla permane.

Colpo secco di un improvviso crollo o lento spegnersi di braci sempre meno calde, sempre meno accese, non più rosse, non più arancioni, già grigie, unicamente grigie. Fa qualche differenza? Forse può fare qualche differenza la velocità dell’immersione se il punto d’arrivo è l’immenso abisso? Scivolare verso il fondo, mentre ancora poco prima ci pareva di essere sospesi, come gli innamorati di Chagall, tra il cielo e l’eternità. Un colpo d’aria, una turbolenza, ed è la caduta. Melma, sabbia, non più aria da respirare a pieni polmoni. Perché nulla dura, nulla permane. È questa la dura legge dell’esistenza. Ed è per questo che amare è sempre una rivoluzione, amare e rischiare tutto quello che siamo e abbiamo, sapendo che alla fine il prezzo pagato sarà altissimo. Rivoluzione e nobiltà. E da ultimo perde tutto anche Antonio Dorigo, l’architetto quarantanovenne, protagonista di “Un amore” di Dino Buzzati, che s’innamora perdutamente, in una Milano fredda e cinica, di una giovanissima donna, Laide, che del sentimento conosce la forza e ne ignora il valore. Quello che segue è l’inizio dell’undicesimo capitolo, nel quale l’uomo capisce di non potersi più accontentare del poco tempo che Laide gli concede.

“Perché se la prendeva tanto? Perché continuava a pensarci? Di che cosa aveva paura? Che Laide scomparisse? Figurarsi. Bastava un colpo di telefono e lei correva a prendere un tassì; e lui l’aveva a sua disposizione, con la biancheria in ordine, tutta bel lavata da poter baciare impunemente in ogni parte del corpo. No. Aveva un bel fare questo ragionamento. Non bastava. Lei sarebbe accorsa, è vero, alla chiamata della signorina Ermelina e sarebbe venuta a letto con lui ma tutto in fondo si riduceva a mezz’ora un’ora al massimo, questo era per lei solo un breve intermezzo di lavoro, da risolvere con gentilezza ma anche con la maggior celerità possibile (Dorigo si era ben accorto di non farla godere, quando le baciava il sesso la Laide teneva chiusi gli occhi, le labbra socchiuse tutto lì, ma per il resto non un vero palpito, un sospiro, un gemito, meglio così comunque piuttosto che le disgustose commedie di certe prostitute convinte che in amore tutti gli uomini senza distinzione debbano essere completamente cretini). Mezz’ora, un’ora al massimo con lui, un paio di volte alla settimana. Ma il resto? Tutte le ore della giornata e della notte? Dove andava? Chi frequentava? La sua vera vita, speranze, divertimenti, gioie, vanità, amori, era altrove, non nel brevissimo tempo trascorso con Antonio. Laggiù era lei veramente, laggiù era tutto quello ch’egli avrebbe voluto sapere di lei, laggiù era il misterioso affascinante, forse anche turpe e squallido mondo a lui vietato”.

Dino Buzzati, Un amore, Milano, Mondadori, 2014

Dino Buzzati, Un amore, Milano, Mondadori, 2014.

 

a cura di Francesco Ricci