Elie Wiesel, La notte

Elie Wiesel, La notte, Firenze, Giuntina, 1980

Quando sfoglio un volume in traduzione, mi piace vedere in quale anno venne pubblicato in lingua originale per le prima volta, se ci sono state successive ristampe, se ha conosciuto nuove edizioni. Ciò mi consente di misurare la fortuna di un testo presso il grande pubblico, di capire se essa sia stata precoce o recente (in taluni caso tardiva), di accertare, insomma, la portata della sua ricezione. Eppure, c’è un libro che rifiuta tutte queste considerazioni, tutti questi calcoli. Questo libro è La notte, che Elie Wiesel, premio Nobel per la pace nel 1986, dette alle stampe a Parigi nel 1958. Sebbene legato a un evento storico, anzi, a quello che alla coscienza ebraica parve l’Evento della storia del mondo “tout-court”, vale a dire la “Shoah”, La notte si sottrae completamente a tutto ciò che ruota intorno al concetto di tempo, di temporalità, di successo, di vendite. Non importa che sia stato scritto in lingua francese piuttosto che in lingua italiana, che sia stato tradotto nel Vecchio continente prima che nel Nuovo continente. La sola cosa che conta è che Wiesel, nato nel 1928 a Sighet, in Transilvania, e deportato ad Auschwitz e a Buchenwald con la famiglia – aveva solamente sedici anni – , ci abbia lasciato questa altissima testimonianza di un abominio inimmaginabile, dinanzi al quale, come scrisse Adorno, “la cultura e la stessa critica della cultura non sono che spazzatura”. Al pari di Celan, di Amery, di Levi, anche Wiesel ha cercato di raccontare ciò che, nella (e per la) sua incommensurabile atrocità, pare rifuggire da ogni tentativo di venire accolto all’interno di una narrazione, di una grammatica espressiva, di una lingua. Auschwitz, infatti non solo ci costringe a ripensare l’idea di uomo quale era stata formulata da una tradizione filosofica e religiosa più che bimillenaria, non solo ci obbliga a fare i conti con la radicale insufficienza della Cultura davanti al Male, se è vero che la “soluzione finale” venne concepita nella patria di Schiller e di Goethe, ma chiama in causa, come mai prima, se non forse nello straordinario “Libro di Giobbe”, il concetto stesso di Dio con i suoi attributi fondamentali, la bontà infinita, l’onnipotenza, la comprensibilità da parte del credente, dal momento che “durante gli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz”, come ebbe a dire Hans Jonas nel corso di una memorabile conferenza, “Dio restò muto”. Nella pagina che segue Wiesel evoca l’impiccagione di tre prigionieri, tra i quali anche un bambino, “l’angelo dagli occhi tristi”.

“I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi. _ Viva la libertà! – gridarono i due adulti. Il piccolo, lui, taceva. – Dov’è il Buon Dio? Dov’è? – domandò qualcuno dentro di me. A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte. Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole tramontava. – Scopritevi! – urlò il capo del campo. La sua voce era rauca. Quanto a noi, noi piangevamo. – Copritevi!- Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora… Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: – Dov’è dunque Dio? – E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: – Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca… – Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere”.

Elie Wiesel, La notte, Firenze, Giuntina, 1980

Elie Wiesel, La notte, Firenze, Giuntina, 1980

 

a cura di Francesco Ricci