Figlio omicida, giustificazione inquietante

Figlio omicida, giustificazione inquietante. Un elemento che spesso risuona tra i tanti elementi inquietanti che caratterizzano i delitti di sangue, è rappresentato dalle dichiarazioni dei genitori volte a giustificare la condotta omicida del figlio. Ciò è recentemente emerso nella triste vicenda di Filippo Turetta, autore dell’omicidio di Giulia Cecchettin. Le dichiarazione del padre di Turetta, oltre a scosciare in tutti noi una sorta di cristiana compassione, offrono uno spunto significativo per un’ulteriore analisi psicologica, evidenziando le dinamiche familiari e culturali che possono contribuire a perpetuare la violenza.

Un genitore che giustifica il figlio omicida, anziché dire “se lo hai fatto, è anche colpa mia”, svilisce la dignità dello stesso ruolo genitoriale che dovrebbe ricoprire. La tendenza preoccupante a minimizzare o giustificare comportamenti estremi all’interno delle famiglie, può avere origine da una varietà di fattori, tra cui disfunzionali norme culturali, mancanza di comunicazione e analfabetismo emotivo. Normalizzare la violenza significa, in pratica, trasmettere il messaggio che tali comportamenti sono accettabili o comprensibili in determinate circostanze.

Quando un genitore giustifica il comportamento criminale di un figlio, spesso entra in gioco un complesso intreccio di emozioni e meccanismi di difesa psicologici. La negazione è uno di questi meccanismi, permettendo al genitore di evitare la realtà dell’atto violento. Inoltre, il desiderio di proteggere l’immagine familiare può portare a razionalizzare o minimizzare la gravità dell’azione. In questo contesto, la dichiarazione del padre di Turetta può essere vista come un tentativo di preservare una visione idealizzata del figlio e di sé stesso come genitore, a dispetto di ogni ragionevole evidenza.

Le dinamiche familiari giocano un ruolo cruciale nella formazione degli atteggiamenti e dei comportamenti degli individui. In alcune famiglie, quelle più esplicitamente problematiche, può esserci una cultura implicita di tolleranza verso la violenza o un modello di comportamento in cui il controllo e l’aggressività sono considerati normali. In altre famiglie, meno apparenti ma non meno problematiche, pur non tollerando alcun tipo di comportamento violento, può mancare totalmente il dialogo, veicolo principale che l’essere umano utilizza per sintonizzarsi emotivamente con chi ha di fronte.

Affermazioni come “Non hai sbagliato solo te, ma abbiamo sbagliato anche noi”, “in questi anni non ci siamo mai guardati negli occhi, non ci siamo detti che cosa non andava, non ti ho mai chiesto come stavi”, anziché “hai avuto un momento di debolezza” aiuterebbero a ricostruire il ruolo di genitore che evidentemente nel tempo era stato perso. Il genitore non è un medico pietoso, ma una guida, talvolta può diventare un giudice ma sempre dovrebbe essere un capitano che segna la rotta al figlio, che ha il coraggio di guardarlo negli occhi e chiedergli “come stai?”, rischiando che il figlio risponda “male!”. Perché molti genitori non lo fanno? Perché poi quel “male” deve essere gestirlo e per farlo il genitore stesso dovrebbe mettersi in discussione. Per prevenire la normalizzazione della violenza, è essenziale promuovere un cambiamento culturale che enfatizzi la responsabilità personale e genitoriale, e che consenta ai genitori stessi di assumere il ruolo che a loro compete. Le istituzioni hanno un ruolo fondamentale in questo processo di cambiamento volto ad educare i giovani e le famiglie verso una migliore gestione delle emozioni e una più efficace comunicazione intra-familiare.

L’omicidio di Giulia Cecchettin per mano di Filippo Turetta è un tragico esempio di come la violenza possa emergere da dinamiche complesse e spesso trascurate. L’idea del raptus come esplosione improvvisa di violenza, oppure peggio ancora la giustificazione “hai avuto un momento di debolezza”, sono semplificazioni che non rendono giustizia alla complessità delle emozioni e dei comportamenti umani. Solo attraverso una maggiore responsabilità individuale e sociale potremmo crescere figli rispettosi dell’altro. Comprendere queste dinamiche è essenziale per prevenire futuri episodi di violenza e per costruire una società in cui la sicurezza e il rispetto reciproco siano al centro delle relazioni umane. Solo attraverso l’educazione, una sapiente gestione delle emozioni e genitori che si comportino da genitori possiamo sperare di evitare tragedie come quelle che troppo spesso riempiono le pagine di cronaca nera.

Dott. Jacopo Grisolaghi

Psicologo, Psicoterapeuta, Dottore di Ricerca in Psicologia, Sessuologo, PsicoOncologo, Ricercatore e docente del Centro di Terapia Strategica di Arezzo
Professore a contratto Università degli Studi eCampus e Università degli Studi Link di Roma
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IG @dr.jacopo.grisolaghi