Nell’agosto del 1878, Gustave Flaubert, ormai vicino alla sessantina, inviò una lettera a Guy de Maupassant, a quel tempo non ancora trentenne, nella quale invitava il giovane scrittore, depresso dal suo impiego presso il Ministero della Pubblica Istruzione e incline alla malinconia, a reagire non già con la pratica del canottaggio o con la frequentazione di prostitute, bensì operando una radicale scelta esistenziale: dedicarsi quotidianamente e umilmente alla propria arte.
In fondo, era quanto aveva fatto lo stesso Flaubert, che aveva sacrificato tutto allo scrivere e alla ricerca della perfezione nello scrivere – come più tardi avrebbero fatto anche due grandissimi praghesi, Franz Kafka e Rainer Maria Rilke – , ritirandosi, come in un monastero, nella sua casa di campagna di Croisset, sulla Senna, dove era capace di lavorare anche per giornate intere su un’unica frase, convinto, al pari di Chateaubriand, che “il talento è una lunga pazienza”. Un estratto della lettera indirizzata da Flaubert a Maupassant, il suo discepolo prediletto, è ora possibile leggerla nell’agile antologia curata da Filippo d’Angelo, studioso di letteratura francese, che ha raccolto in un unico volume alcune riflessioni, intorno al senso e ai modi – strategie, abitudini, comportamenti – del mestiere di scrittore, fatte da Honoré de Balzac, Charles Baudelaire, Gustave Flaubert, Guy de Maupassant, Émile Zola, André Gide, Marcel Proust.
Testimoni di grandi rivolgimenti storici, come la rivoluzione borghese del 1830 o la Comune parigina o la prima guerra mondiale, partecipi di un’esistenza che per tutti loro, come per ciascuno di noi, fu “folle e significante” (Carl Gustav Jung), questi scrittori non dubitarono mai che l’importanza della vita consiste interamente nella possibilità di offrirne una rappresentazione letteraria. Il passo che segue è tratto da “Romanzo”, il saggio che Maupassant premise a una delle sue opere di maggiore originalità, “Pierre e Jean”, pubblicata nel 1888.
“In effetti, quanto bisogna essere folli, audaci, arroganti o stupidi per scrivere ancora al giorno d’oggi! Dopo tanti maestri di natura così varia, dal genio così diverso, cosa resta da fare che non sia stato fatto, cosa da dire che non sia stato detto? Chi tra noi può vantarsi di avere scritto una pagina che non si trovi già, pressoché uguale, da qualche parte? Quando leggiamo qualcosa, noi, talmente saturi di scrittura francese che il nostro corpo intero ci dà l’impressione di essere un impasto di parole, troviamo mai un rigo, un pensiero che non ci sia familiare, di cui non abbiamo avuto almeno il confuso presentimento? Chi cerca soltanto di divertire il pubblico con mezzi già noti, scrive fiduciosamente, nel candore della sua mediocrità, opere destinate alla folla ignorante e inetta. Ma quelli su cui gravano tutti i secoli della letteratura passata, che non sono soddisfatti di niente, che sono disgustati da tutto perché sognano di meglio, ai quali tutto sembra già usato, e a cui la loro opera dà sempre l’impressione di un lavoro inutile e comune, finiscono per giudicare l’arte letteraria come qualcosa d’inafferrabile, di misterioso, che solo qualche pagina dei più grandi maestri può a malapena svelarci. La lettura di venti versi o di venti frasi ci fa sobbalzare il cuore come una rivelazione stupefacente; ma i versi successivi assomigliano a qualsiasi altro verso, la prosa che viene dopo a qualsiasi altra prosa”.
Filippo D’Angelo (a cura di), “Troppe puttane! Troppo canottaggio!”, minimum fax, Roma, 2014.
a cura di Francesco Ricci