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Fotografi in trincea: la grande guerra in mostra al Santa Maria

Fotografi in trincea. La grande guerra negli occhi dei soldati senesi. Una mostra racconta per immagini e lettere inedite i giorni dei soldati senesi impegnati nelle battaglie della Grande Guerra

 

 

Fotografi in trincea. La grande guerra negli occhi dei soldati senesi. Era il 1915 quando, da Siena, un gruppo di soldati fu costretto a partire per il fronte, alla volta di quella che sarebbe stata ricordata ai posteri come la Grande Guerra. Durante il conflitto, alcuni di loro documentarono la vita nei lager e le efferatezze del primo conflitto mondiale. I loro familiari, anni dopo, sono andati a scavare nel passato di quei soldati, recuperando lettere, cartoline, foto e disegni. Da questo immenso materiale sono state selezionate 100 fotografie amatoriali. Tutti insieme ritornano oggi a raccontarci le storie di quel terribile e grandioso momento, autentico spartiacque della storia contemporanea.  

 

La pioggia battente ticchettava sull’elmetto infangato di Franco. “Cara Maria“, cercava di scrivere in quell’unico pezzo di carta che gli era rimasto. Con la mano tremolante dal freddo bevve l’ultimo sorso d’acqua che gli era rimasto. Sentì un tonfo sordo e si girò di scatto. Il suo compagno di trincea si era accasciato a terra, nella speranza di trovare un po’ di riposo. Franco saltava su ogni volta che sentiva un rumore. La paura convulsa di vedersi arrivare un proiettile dritto in fronte non lo lasciava nemmeno dormire. Tirò un sospiro, di poco sollievo a dir la verità. Una lacrima gli attraversò il volto.  Alzò la testa, La sua mente tornò alla sera in cui aveva conosciuto Maria: una bellezza giunonica, alta e prosperosa, i lunghi capelli mori e le labbra carnose. Gli aveva sorriso timidamente quella sera, era primavera e la piazza era gremita di gente a passeggio. Lui  l’aveva notata subito tra la folla, come non notarla. Era la più bella. Si asciugò il naso colante con il lembo della giacca, sporca da far ribrezzo.  Aveva addosso ormai da mesi quell’odore pungente che trasudava dalla sua pelle, come di cane bagnato, che faceva venire i conati solo a stargli vicino. Scosse la testa amareggiato, si chinò sul foglio e provò di nuovo a mantenere ferma la mano. Era maggio 1916.

“Cara Maria,

quanto ti penzo. Un anno di questa maledetta guerra e io ancora ci ho solo il tuo viso in testa. L’Isonzo è davanti a me, i nemici stanno arrivando, li posso sentire. Ci vogliono far crollare quei maledetti. Muoiono gelati a centinaia e ciò è ignorato dal paese. Noi non ci si fa più. Ho già visto tanti cadere e c’è sangue, peggio del fiume che ci ho davanti. Raffaele ieri lo anno colpito, alla schiena. Era giovane, la su mamma morirà di dolore e lo sapeva che non tornava. Sono uscito dalla trincea appena ho visto che la situazione si faceva brutta, ma era troppo tardi. Ho fame, freddo e  sono stanco. Sento il freddo che mi entra nella pelle e nelle ossa. Però ora basta con queste cose brutte. Dimmi te come stai e come stanno mamma e babbo? Gli devi dire che non si creda agli atti di valore dei soldati,non ci è nessuno qui che vuole fare il coraggioso. Non si dia retta alle altre fandonie del giornale, sono menzogne. Non combattono, no, con orgoglio e ne con ardore. Qui si va al macello perché sono guidati e perché temono la fucilazione. Se avessi per le mani il capo del governo, io…”

– Franco, o che scrivi,  in mezzo a ‘sto schifo. Trincea! Abominevole carnaio di putredine e di feci, che la terra si rifiuta di assorbire, che l’aria infuocato non riesce a dissolvere. Il tanfo di cadavere lo ingoiamo col caffè, col pane, col brodo -.

Dall’altro lato Francesco scosse la testa e imbracciò il fucile. Il suo sguardo si posò su una pozza putrida, di acqua e urina stantia. La sua famiglia era a Siena e non riceveva le loro lettere da mesi. Portava sempre con sé un quadernetto e una matita sbeccata. Faceva l’artista, di professione. La guerra non gli aveva portato via la sua più grande passione e anche in quella fossa, “ingombra di corpi pigiati e gambe ritratte” (come diceva sempre ai suoi compagni), trovava la forza di immortalare ogni singolo momento di quella sofferenza. Perché nelle celle lager, si perdeva la dignità umana. Francesco scarabocchiò le figure di tre uomini, in coda per un pezzo di pane. “Salutatemi il Catene”, scriveva sempre in fondo alle sue lettere. Il fornaio sotto casa lo conosceva bene, da quando era bambino. Quando ancora arrivavano i pacchi dalla famiglia, in quella fossa di ossa e sangue, il Catene non mancava mai di fargli arrivare il pane e qualche biscotto. Poi arrivò il blocco dei beni alimentari e con se la speranza di mettere sotto i denti qualcosa di sostanzioso per poter sopportare il freddo e la stanchezza.

“Cara Maria” – Franco impugnò di colpo il fucile con una mano, mentre con l’altra tentò di scrivere le ultime righe – “Manda il mio pensiero affettuoso alla mamma e ai bambini. Gli devi dire che qui è terribile, non si era mai vista tanta rovina. Eppure io lo so che col tuo aiuto e coll’aiuto di Dio, il mio animo è sereno. Farò il mio dovere fino all’ultimo. Ora si aspettano i colpi. Eccoli.”

 

Fotografi in trincea. La grande guerra negli occhi dei soldati senesi. In mostra dal 29 ottobre al 15 gennaio, al complesso museale Santa Maria della Scala.

Michela Piccini

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