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Francesco Ricci, Storie d’amicizia e di scrittura

Per gentile concessione dell’editore si riporta la parte conclusiva dell’introduzione di Daniela Dal Lago Ricci al libro “Storie d’amicizia e di scrittura”.

“La letteratura, per Francesco, è quindi da riscoprire e rivalutare come uno dei pochi antidoti per arginare un’immaturità affettiva che segna quest’epoca di giovani spaesati, figli di una generazione annichilita da ideali effimeri e superficiali. A cominciare dalla didattica, per continuare con le pubblicazioni dedicate alle grandi figure dei poeti e degli scrittori del Novecento, egli non parte più dalla biografia, dal contesto storico-culturale o dalla produzione del singolo autore – tutte cose ormai note –, ma parte da quel testo, che spesso è lo scritto privato, il carteggio, l’intervista, in cui emerge il fattore umano con le sue debolezze, i suoi dubbi e le sue fragilità. L’autore è prima di ogni altra cosa uno di noi e, tra tutti, è sempre uno che ha patito e indagato un dolore acuto e insopportabile, detentore di una ferita lacerante e mai sanata, che ha tentato di lenire con la scrittura e che nella scrittura è straripata. Francesco ama chi ha fatto del mestiere di scrivere una necessità, non un semplice sfogo, ma piuttosto il bisogno di riconoscere il proprio male di vivere, nominandolo prima e trasferendolo sul foglio bianco poi, per sopportarlo più che per affrontarlo. Tre donne è stato il primo passo verso questo tipo di approccio all’autore, e non è un caso: la poesia è stata da sempre la forma per eccellenza più adatta a rendere aulica ed eterna la sofferenza. E non è un caso nemmeno che gli autori di cui si è occupato, dopo le tre poetesse, siano stati Pier Paolo Pasolini ed Elsa Morante, “lirici” sempre, qualsiasi forma letteraria abbiano sondato, qualunque stile abbiano perseguito. Ed è qui che, ritornando alla letteratura di Calvino che vive solo se si pone obbiettivi smisurati, Francesco osa tanto da fingersi prima Pier Paolo e poi Elsa, facendoli rivivere in prima persona in una confessione intima e privata che li ponga finalmente davanti a quelle lacerazioni dell’anima mai dette, eppure sempre tangibili.

Se Daniel Pennac, in Mio Fratello, ha scelto di affrontare il lutto per la morte del fratello affiancandolo all’analisi dello scrivano Bartleby di Melville, nel tentativo di spiegare a sé stesso il senso di quella incomprensibile perdita, Francesco ha avuto bisogno di calarsi personalmente in Pier Paolo ed Elsa, in una totale immedesimazione del loro sentire, facendone propria la prosa e le argomentazioni, per comprendere maggiormente da dove arrivasse la potenza emotiva della loro scrittura. Quella potenza da cui è attratto, a cui tante volte ricorre, che gli serve, citando i due autori, per capire, riconoscere ed esprimere i propri sentimenti. Studiare l’uomo Pasolini e la donna Morante è stato un lavoro immenso che si è protratto per diversi anni, anche perché il materiale scritto da loro e su di loro ha ormai raggiunto una mole imponente. Credo, però, che l’aver respirato l’aria degli ambienti da loro frequentati, soprattutto a Sabaudia, gli abbia permesso di immergersi fino in fondo, sin quasi a emularli, in quell’atmosfera perduta e tuttavia ancora palpabile. La sua è una sorta di malinconia per quel tempo di fervore creativo e sperimentale in cui Elsa, Pier Paolo, Alberto, Umberto, Giacomino, Natalia, Cesare e Fernanda – protagonisti di questo libro – e tutti quelli che gravitavano intorno a loro, si potevano ritrovare in un’Italia in cui gli ideali della cultura erano ancora riconosciuti, un’Italia che lui sente irrimediabilmente perduta e favolosa. Come dargli torto? In fin dei conti, pur sembrando ormai completamente esaurita, quella loro epoca non è poi così distante se si pensa che è quella che appartiene ai nostri genitori, se possiamo rivedere questi uomini e queste donne in molte fotografie che li ritraggono da soli o in gruppo, in occasioni pubbliche o private, se possiamo sentire le loro voci nelle interviste radiofoniche e televisive. Nei loro scritti rinveniamo problemi sociali attualissimi e non ancora risolti o profezie per il futuro tristemente avveratisi. Quelli raccontati in questo nuovo libro sono gli uomini e le donne che si conoscevano tra loro, collaboravano, si aiutavano e diventavano amici per quel comune vissuto, spesso tragico, e la grande stima reciproca, che Francesco ripercorre muovendo dai fatti e i brani che più evidenziano questo stretto legame. Non nascondo che, in questo momento di isolamento, circondati dalle loro lettere intrise del ricordo dei loro incontri e del tempo trascorso insieme, non mi sia difficile riconoscere in mio marito una sorta di rimpianto per non aver vissuto quella magica stagione, per non essere stato lì, tra loro”.

 

Francesco Laezza

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