Le storie del manicomio – Adolfo Bencini: un precursore dei nostri tempi?

La storia che voglio raccontare oggi porta al centro una domanda che tutti gli psichiatri, anche quelli che, come me, non si sono mai cimentati nel campo delle perizie medico legali, si sono sentiti prima o poi rivolgere. La formulo nel linguaggio magari un po’ rozzo ma chiaro della gente comune: “dottore, ma questo (paziente) c’è o ci fa?”. Una domanda cui non sempre è facile rispondere in maniera netta con un no od un sì e che per questo a volte ci mette in imbarazzo, allora come adesso.
È infatti la storia di un ricovero in manicomio fatto per permettere l’effettuazione di una perizia per un soggetto che proviene dal carcere e che bisogna decidere se deve tornarci o se deve rimanere a curarsi al San Niccolò. È anche un modo per conoscere, oltre naturalmente Adolfo Bencini (è questo il nome del paziente) anche il pensiero dei due periti, entrambi nomi noti a Siena, ma non solo: Antonio D’Ormea, colui che più di ogni altro ha tenuto la direzione del San Niccolò (ben 43 anni) e Onofrio Fragnito che fu anche Rettore dell’Università di Siena (dal 1921 al 1924) e diventò poi un vero luminare della scienza neuropsichiatrica italiana. Citerò alcuni brani della lunga perizia a firma comune che rappresentano pagine di una scrittura chiara e lineare che giunge a dare a quella domanda una risposta netta. Emerge una visione della mente che adesso può sembrare semplicistica e che pare ignorare i contributi, per esempio, della psicoanalisi ma che ha una sua forte coerenza interna.

Antonio D’Ormea

Ma partiamo dall’inizio.
Adolfo Bencini viene ricoverato all’ospedale psichiatrico il 14 febbraio del 1920, proviene dal carcere di Santo Spirito dove ha minacciato il suicidio ed ha dimostrato segni di depressione.
Ma fin dall’inizio si dispone che il ricovero servirà per dare il tempo necessario allo svolgimento di una perizia. Il Bencini è nato a Firenze nel 1888, ha quindi 32 anni al momento del ricovero ed aprire la sua cartella vuol dire essere sommersi da una massa di fogli vergati da lui con buona calligrafia. Nel periodo del suo breve ricovero scrive a mano la sua monumentale biografia composta da almeno un centinaio di fogli protocollo e manda una serie infinita di lettere con suppliche, ringraziamenti, richieste e spiegazioni rivolte ai medici, ai periti, ai giudici.
È difficile orizzontarsi in quel mare di fogli che dimostrano un primo dato: la sua grafomania querula pare fatta apposta per confondere. A prima vista i suoi periodi sono ben costruiti, senza errori e con una forma a volte persino gradevole, ma dopo un po’ si rimane sorpresi della pochezza del contenuto che non chiarisce quasi nulla di sé e delle sue imprese.


Come esempio vi porto l’incipit dell’autobiografia: “Ho scritto nolente, una parte della mia dolorosa passata vita, per dar loro, ottimi Dottori, se non in tutto ma almeno in gran parte una giusta visione del mio doloroso quanto maculato passato, che tanto mi accascia moralmente l’animo (che è ansioso di redimersi e di giustificarsi) affinché possano trarci l’elementi che occorrono alle Sig.re Ill.me per giudicare serenamente (com’io invoco per la serenità e la giustizia) lo stato delle mie facoltà mentali.”
Si dirà: uno scritto pieno di buone intenzioni! Il fatto è che, oltre a questo stile un po’ enfatico e teso a ingraziarsi il lettore, non si va avanti nella confessione dei propri misfatti.
E quali sono quest’ultimi? Il Bencini ha nel suo “curriculum” una sfilza di ben 18 precedenti nel periodo che va dal 1905 al 1918. Quasi tutti per truffa che si sono risolti con multe o con brevi periodi di detenzione. Il suo modus operandi di truffatore seriale (si direbbe oggi) e quasi sempre lo stesso: avvicina qualcuno che stordisce di chiacchiere, millanta amicizie in alto loco e così si fa prestare dei soldi promettendo cose, favori, interessamento per faccende complicate da risolvere e poi naturalmente svanisce nel nulla. Così viene descritta nella perizia l’ultima truffa che lo ha portato a Santo Spirito: “Si presenta ai vari coloni della provincia che avevano figli sotto le armi qualificandosi come Tenente del figlio stesso e promettendo di ottenere ad esso una licenza previo lo sborso di una somma che oscillava di solito dalle 50 alle 150 lire per le spese correnti alle pratiche del caso; poi dopo pochi giorni scriveva agli interessati una lettera di assicurazione che tutto era fatto, lettere datate da varie località, ma viceversa poi sempre impostate da Siena”.
Evidentemente diversi ci sono cascati ma poi lo hanno “beccato”, così Bencini è di nuovo in carcere. Si tenga presente che la fine della sua lunga autobiografia porta a chiusura, con una discreta faccia tosta, questa frase: “Sono ancora onesto. No! Non ho commesso truffe!”.
Il suo ricovero è piuttosto breve ma i periti lo scandiscono in due fasi: all’inizio si qualifica come ingegnere e cerca di manipolare gli altri malati sempre dall’alto di una sua supposta superiorità. Anche se si comporta bene, fa il forte con i deboli e l’ossequioso con i medici. Docilmente si assoggetta allo stile di vita che l’istituzione impone, chiede permesso per qualunque cosa. Tutti quello che lo incontrano provano all’inizio quasi ammirazione che poi rapidamente deperisce verso un notevole fastidio per la sua verbosità enfatica e senza limiti. Viene spedito al quartiere Conolly non per un comportamento particolare, ma per i suoi precedenti penali.
Poi dopo qualche settimana cambia registro.
Scrive una lettera, refertata in perizia, con cui annuncia il suo cambio di atteggiamento: “errai molto scrivendo bugie nella mia biografia per sfuggire alla parte della giustizia. Amo dunque dire la verità abbandonando la cattiva strada del raggiro e della simulazione […] Abbia dunque pietà di uno sventurato – più che colpevole – che per alcune ragioni fu spinto da altri a simulare per sfuggire alla giustizia nella quale confido perché saprò giustificarmi, chiamandomi a Lei a chiarire su alcuni fatti che svisai nell’intento di comparire affetto da malattia di grandezza, mentre in verità non soffersi mai di alcun disturbo mentale”. Il contegno generale verso tutto l’ambiente diventa assai più modesto.
Descrive così il suo tentato suicidio: “non tentai di suicidarmi perché volessi sfuggire colla morte alla Giustizia, perché non la temo, perché non ho nessuna pecca che me la faccia temere. Ma tentai porre un fine ai miei dolori nelle Carceri perché deluso dalla società incredula nei miei buoni sentimenti per quanto abbia cercato di mostrarli con la probità. Accecato dal dolore persi la mente”.

La domanda a cui la perizia deve dare una risposta è quella consueta: “stabilire se nei momenti in cui commise i vari fatti il Bencini era in stato tale di infermità di mente da togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti o quanto meno se il suo stato di mente era tale da scemare grandemente la imputazione senza escluderla”.
I periti tracciano prima il quadro familiare e la storia di vita del soggetto. Si viene così a sapere che il Bencini rimane orfano del padre molto presto e poi fu quasi abbandonato dalla madre che si risposa poco dopo. Sta di fatto che comincia a delinquere prima dei 17 anni.
Viene definito, prima di passare al vero esame psichico: un parlatore prolisso ed enfatico, grafomane per eccellenza, ha scritto durante la degenza in manicomio una lunghissima biografia di difesa, pentimento, ed auto apologia ad un tempo.
Ideazione: rapida, molto abbondante, moderata, a prima vista impeccabile. Non si stenta però a scorgere nella sua ideazione un colorito grandioso e fastoso.
Sentimenti: umore mutevole, prevale però il tono elevato, carattere incostante piuttosto che cattivo.
Coscienza: se [da un lato] il soggetto sa che i titoli e i meriti che si attribuisce non sono veramente i suoi, d’altra parte appare così convinto nel meritarli e nel sostenerli che è indubbio in esso un esageratissimo concetto del suo valore e della sua personalità.
Ed ecco il primo quesito che i periti si pongono: il Bencini è un paranoico?
Così argomentano: “Un paranoico lucido come di solito è, può dissimulare le sue idee morbose per ragioni, diciamo così, di condotta politica rispetto ad avversari da cui teme danni in determinati momenti. Tra i paranoici dissimulati, viventi liberamente fuori le cinte dei manicomi, vi sono molti “messia” che non predicano il loro evangelio perché non credono i tempi maturi ad accoglierlo. Ma non dirà mai – come ha sostenuto il Bencini – di volersi redimere”. Quindi la risposta al quesito è negativa.
Ed ecco arrivare un inquadramento teorico generale che precede la definitiva diagnosi: “La mente umana si svolge lungo due linee che possono procede parallele e simmetriche, ma possono anche divergere e crescere disuguali. L’una linea rappresenta il lato conoscitivo della mente, che dalle sensazioni sale ai concetti, elaborando la realtà in forma teoretica; l’altra linea rappresenta il lato somatico emotivo della mente, che, elaborando le modificazioni affettive che gli stimoli del mondo esterno inducono nell’anima, perviene alla costituzione di quel prodotto altamente differenziato e di delicata e fragile struttura che è il sentimento morale.


Come si combinano queste due linee?
Se c’è simmetria troviamo in alto l’uomo intelligente e morale, in basso il frenastenico in cui intelligenza e senso morale si sono arrestati ad un grado più o meno rudimentale del loro sviluppo.
Se c’è invece asimmetria: sviluppo dell’intelligenza senza un equivalente sviluppo del senso morale oppure sviluppo del senso morale con arresto evolutivo dell’intelligenza. Praticamente però questa seconda possibilità non si verifica mai. La prima invece si verifica frequentemente: sviluppo normale – medio o anche superiore – dell’intelligenza senza un adeguato sviluppo o con assoluto arresto evolutivo del senso morale”. E come si chiama questa condizione?
“Imbecillità morale o delinquenza congenita o immoralità costituzionale”.
“Ma è imputabile un uomo con questa diagnosi, nel quale o per ragioni di eredità morbosa o per l’ambiente in cui è cresciuto o per l’abbandono dei genitori, il sentimento morale non si è sviluppato?
L’imbecillità morale è una malattia, o, più esattamente, un’anomalia di sviluppo allo stesso modo dell’imbecillità intellettuale. Ora perché mai nessuno incolpa l’imbecille intellettuale della sua anomalia e tutti incolpano l’imbecille morale della sua?”.
“L’imbecille morale, data la sua intelligenza, è in grado di risentire l’efficacia correttiva della pena: egli è in fondo correggibile. Ci vorrebbero istituti di educazione, nei quali il piccolo delinquente trovasse l’ambiente adatto allo sviluppo del sentimento morale. Invece lo si manda nelle carceri comuni dove non solo non trova di che correggere ma di incrementare la sua immoralità”.
Dopo aver auspicato che la legislazione provveda a risolvere questa contraddizione così concludono: “affermiamo che il Bencini quando commise i reati di cui è imputato né mancava del tutto, né era fortemente scemata la coscienza o la libertà dei propri atti. È però umano tenergli conto, ad attenuazione della sua responsabilità, che la colpa dell’essere egli moralmente quale in oggi è, non è tutta sua”.
La perizia porta la data del 29 aprile 1920 ed il 9 maggio Bencini viene rispedito in carcere per scontare la sua pena.

Lo spazio di cui dispongo non mi permette di svolgere molte altre considerazioni che la lettura del caso suscita. Ma non posso chiudere senza aver notato quanti siano gli agganci con l’attualità.
Bencini, che è un ladro di polli o poco più, rappresenta un tipo psicologico oggi molto frequente. Tutti quelli che non hanno mai colpe, che negano anche l’evidenza, che tutto dipende sempre dagli altri, che promettono di cambiare e non lo fanno mai, soffrono di “imbecillità morale”? Allora bisogna rendersi conto che ci deve essere stata una vera epidemia della sindrome in quest’ultimo periodo, tanto che viene da pensare che la società nel suo complesso ne soffra.
Ma se gli “imbecilli morali” diventeranno la maggioranza, certamente quasi tutti, a differenza del Bencini, riusciranno a farla franca!

Andrea Friscelli