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Gigi Paoli, La fragilità degli angeli, Giunti, Firenze 2018

La differenza tra un buon poliziesco e un cattivo poliziesco è una questione di stile. Non sempre è stato così. Per molto tempo, infatti, questa scrittura di genere ha avuto nell’orchestrazione della vicenda, nella descrizione delle azioni, nell’osservazione del detective, che con intelligenza e acume raccoglie gli indizi e risolve il crimine, i suoi elementi più rilevanti. Di conseguenza, era possibile parlare di un poliziesco ben riuscito tutte le volte che lo scrittore guadagnava l’attenzione e l’apprezzamento del lettore in virtù di una storia ricca di suspense o grazie al conseguimento dell’effetto sorpresa, che smentiva ipotesi e illazioni fatte in precedenza. Oggi, però, le cose non stanno più così. Si assiste, infatti, a una riduzione dell’area del narrabile: complice anche la continua interazione tra cronaca e letteratura, cinema e letteratura, non c’è praticamente più trama che non produca l’effetto in chi legge del “già visto”, del “già sentito”. Non solo, ma anche il gran numero di libri pubblicati riconducibili al genere giallo o noir o thriller – specie da quando la critica si è unita al pubblico a decretarne il successo – rischia di generare ora assuefazione ora monotonia, inducendo spesso a confondere i nomi degli autori o dei titoli dei romanzi. A volte perfino di entrambi. A essere apprezzato, custodito, ricordato, resta ormai solamente il poliziesco (impiego il termine nella sua accezione di significato più ampia) scritto bene.

Ma cosa significa, per me, che un poliziesco è scritto bene? Che lo stile, e torno così all’affermazione iniziale, risulta perfettamente coerente con la materia narrata e ciò tanto nelle parti diegetiche quanto nelle parti dialogate. La caratterizzazione “atmosferica” di un ambiente, la raffigurazione degli aspetti oscuri di una città, l’affresco della società, devono essere mostrati a livello di linguaggio ancor prima che a livello di vicenda. Non si tratta di far parlare semplicemente i personaggi sulla base della loro cultura, professione, status. Occorre che la sordidezza di una condotta e di un luogo, la crudeltà disumana di un gesto, l’emozione di angoscia e terrore suscitata nell’opinione pubblica dall’inafferrabilità di un omicida, si riflettano sul piano della sintassi, rendendola ora spezzata, ora confusa, ora nervosa, ora sincopata; sul piano dell’aggettivazione, che procede per volute approssimazioni nel tentativo di afferrare ed esprimere ciò che, in quanto manifestazione del male assoluto, pare essere inesprimibile, pare porsi al di là di ogni grammatica; sul piano delle situazioni, anche quelle più leggere, più consuete, più “nostre”, dove l’impiego della figura della similitudine finisce col tracciare un orizzonte familiare, recuperabile da ognuno attraverso la memoria.

“La fragilità degli angeli” di Gigi Paoli, la terza inchiesta del giornalista di cronaca giudiziaria Carlo Alberto Marchi, è senza ombra di dubbio un noir ben riuscito, e lo è perché la scrittura asseconda pienamente il variare di scena – con al centro sempre la città di Firenze – e il mutare degli stati d’animo del protagonista, dei suoi aiutanti, della popolazione fiorentina, turbata e intimorita dalla scomparsa di un bambino di soli quattro anni. Il passo che segue è tratto dal secondo capitolo del romanzo. Qui lo stile riproduce la leggerezza e la divertita insofferenza di una redazione di giornale, raggiunta a tarda sera da una nuova notizia, destinata a dare corso alle indagini.        

“Ragazzi è sparito un bambino.” Ecco. Alzarsi in piedi nella redazione di un giornale e pronunciare queste parole – o magari altri vocaboli tipo “omicidio”, “rapina” o “morto” –, in un orario variabile dopo le sette di sera, provoca due scenari alternativi. Il primo è quello dei film: i giornalisti accorrono attorno al valente collega col telefono in mano e scatta la caccia collettiva alla notizia, tutti per uno, uno per tutti. Roba da film, appunto. Il secondo è quello reale e l’effetto primario è un ritorno al passato, a quando cioè l’implacabile professoressa del liceo annunciava un’interrogazione a sorpresa e scorreva il dito sul registro: il tuffo sotto il banco per evitare l’incrocio dello sguardo diventava specialità olimpica. In subordine, l’effetto è paragonabile al lancio di una fialetta puzzolente in mezzo alla classe durante l’ora di ricreazione a carnevale: fuga immediata dal fetido epicentro verso ogni direzione possibile. E fu così che alle otto meno un quarto di quel giovedì di ottobre, Alessandro Della Robbia, prima firma della cronaca nera del “Nuovo” di Firenze, divenne una fialetta puzzolente. Nessuno rispose. Un collega finse un’improvvisa quanto indifferibile telefonata, un altro si avviò tranquillamente verso il bagno, un terzo s’infilò le cuffie. “Oh, non correte, mi raccomando. Che problema c’è? Ha solo quattro anni” continuò allargando le braccia. Lavoravo davanti a lui e non potevo nascondermi da nessuna parte, anche perché l’altra metà della scrivania era la sua. “Artista, falla finita. Sono di notte, non scherzare neanche.”

Gigi Paoli, La fragilità degli angeli, Giunti, Firenze 2018

 

a cura di Francesco Ricci

Francesco Laezza

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