“Se c’è una cosa che può insegnare mio padre? Il valore della solidarietà umana, che trascende da religione, etnia o ideologia. E credo che nel Giorno della Memoria ricordare anche questo suo esempio sia importante”.
Claudio Bonechi dà questa lettura a quanto fatto dal babbo Ettore, riconosciuto nel 2007 come Giusto tra le nazioni dallo Yad Vashem.
Anche lui fu uno dei 766 italiani che, come disse l’ideatore dell’onorificenza Moshe Bejski, permise “di credere ancora nelle possibilità dell’uomo in uno dei momenti più oscuri del mondo”.
Bonechi fu un campione del bene, qualcuno che decise di non tirarsi indietro, di non rimanere indifferente alla barbarie. Fu una luce di speranza nella nostra notte più buia e lo fu comportandosi semplicemente un essere umano. Un eroe nel suo essere una persona comune dunque. “Non aveva paura. Era coraggioso, ma anche modesto: di quanto ha fatto ne ha sempre parlato poco”, spiega il figlio.
La vicenda inizia nel 1943 nelle campagne vicino a Monaciano . La famiglia ebraica dei Piperno si era trasferita da Roma a Siena, in alcune ville che aveva acquistato anni prima. Un loro vicino di casa, il professor Mario Bracci, venne a sapere di un rastrellamento, che sarebbe stato compiuto dai nazisti nella notte tra il 5 e il 6 novembre. Così lo disse ai Piperno e promise loro aiuto per non farli arrestare.
È qui che interviene Ettore Bonechi. “Quando gli ebrei dovettero scappare – dice il figlio Claudio – lui li aiutò a nascondersi in una casa disabitata. Poi, ogni notte, superava i posti di blocco dei carabinieri per portare loro da mangiare ed anche altre cose che potevano servire”.
Decisive per evitare l’arresto dalle forze dell’ordine furono le amicizie che Bonechi aveva con gli uomini dell’Arma. Così come decisive furono le conoscenze che il professor Mario Bracci aveva in Questura per poter far tornare i Piperno a Roma.
“Lui però di questo parlava poco – continua il figlio – . Ogni tanto ci diceva che un SS voleva far saltare in aria la struttura di Monaciano ma che lui riuscì a farlo desistere. Ed ancora una volta ci raccontò di quando i tedeschi gli puntarono una pistola in faccia. Mio padre poi – ricorda – fu di grande aiuto per i contadini della zona e cercò di sfamarli. Mancava infatti il grano nel 1943. E lui inventò e nascose una sorta di mulino rudimentale per poter lavorare il grano residuo e garantire le farine a circa un centinaio di persone”.
Marco Crimi