Sia riconosciuto lo stato di Palestina “in sintonia con coloro che auspicano che si possa arrivare un giorno ad un unico Stato: non etnocratico ma binazionale, non confessionale ma laico, non teocratico e fondato sull’apartheid ma veramente democratico”. La richiesta arriva da un lungo documento dell’Università per Stranieri di Siena ed è indirizzata al governo italiano. Numerosi i punti toccati dall’ateneo nell’atto. Abbiamo deciso dunque di pubblicare tutto il testo, in modo che i lettori possano leggere integralmente la presa di posizione dell’Istituzione.
“L’Università per Stranieri di Siena «respinge ogni forma di nazionalismo, riconosce come patria il mondo intero e l’umanità tutta. […] Ripudia la guerra, in ogni sua forma. Favorisce le forme di obiezione di coscienza previste dalla legge e accoglie studentesse e studenti, ricercatrici e ricercatori perseguitati nei loro Paesi per essersi rifiutati di combattere. Si propone di formare generazioni capaci di prevenire la guerra, attraverso la diffusione del plurilinguismo e del multiculturalismo, in sintonia con le linee dettate dalle istituzioni europee e dall’ONU» (dal Codice etico di ateneo).
Considera con preoccupazione questo passaggio della storia europea, in cui la logica della guerra sembra aver fatto breccia nelle coscienze di molti ed essere adottata con crescente spregiudicatezza da classi dirigenti inconsapevoli del rischio al quale l’umanità si sta esponendo; e ritiene responsabilità di ogni persona, in particolare se attiva all’interno di un’istituzione con enormi responsabilità culturali e politiche, come l’università, impegnarsi per favorire e sostenere la pace e la sua logica.
Condanna con fermezza la smisurata rappresaglia perpetrata dallo Stato di Israele a Gaza in risposta all’esecrabile e ingiustificabile eccidio compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023 – nella consapevolezza che questi eventi sono stati preceduti da una lunga storia di conflitti, nel corso dei quali lo stato israeliano ha attuato una crescente politica di occupazione territoriale di lunga durata, repressione sanguinosa e discriminazione nei confronti del popolo palestinese.
La punizione collettiva che Israele sta attuando dal 7 ottobre ha già provocato circa 40.000 morti, la maggior parte dei quali sono donne e bambini: un massacro che non ha nulla a che fare con la difesa di Israele, e che violando sistematicamente il diritto internazionale si configura come atto di terrorismo. L’azione a Gaza ha comportato e comporta, inoltre, l’imposizione di spostamenti di massa della popolazione della Striscia e una sistematica distruzione di abitazioni, strutture e infrastrutture civili, scuole e monumenti, che favorisce l’insorgenza di malattie e contagi, e rende di fatto impossibile la vita quotidiana di oltre due milioni di persone, tendendo ad annullarle come comunità riconoscibile.
Condivide l’ordinanza della Corte internazionale di Giustizia dell’Aja (26 gennaio 2024), per cui è ‘plausibile’ che questo massacro stia assumendo i contorni del genocidio, cioè del volontario, tentato annientamento materiale e culturale del popolo palestinese. E plaude alla Corte Penale internazionale dell’Aja per aver spiccato mandati di arresto contro i responsabili massimi di Hamas e del governo di Israele.
Chiede l’immediato cessate il fuoco, la liberazione di tutti gli ostaggi e accertamenti rapidi ed efficaci dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità perpetrati da entrambe le parti. Rigetta con forza ogni tentativo di emarginare nella categoria infamante di ‘antisemitismo’ le proteste contro la politica di guerra dello Stato di Israele, e di criminalizzare in questo modo un dissenso diffuso, al contempo indebolendo il significato stesso del concetto di ‘antisemitismo’.
Chiede perciò alla Conferenza dei rettori e alle altre università italiane di ritirare l’improvvida adesione alla definizione di antisemitismo dell’IHRA, e in generale di non adottare alcun sillabo ideologico esterno sul quale misurare ortodossia ed eterodossia di studenti e docenti. Esprime profonda preoccupazione per la possibile compressione (già manifestatasi, per esempio, negli Stati Uniti e in Germania) delle garanzie che presidiano le libertà costituzionali di manifestazione del pensiero e di ricerca accademica. Rigetta altresì ogni tentativo di giustificare l’aggressione al popolo palestinese strumentalizzando la memoria della Shoah, ciò che costituisce un indebito uso politico della Storia, nocivo sia per la ricerca storica sia per la qualità del dibattito pubblico.
Esprime sdegno per la deliberata distruzione del sistema universitario palestinese, e chiede alla Conferenza dei Rettori e al MUR di intervenire con forza per accogliere studentesse, studenti, ricercatrici e ricercatori palestinesi, e quindi, non appena sarà possibile, per aiutare materialmente e culturalmente a ricostruire quelle università, promuovendo anche occasioni di incontro e confronto con omologhi del sistema universitario israeliano.
Da parte sua, si impegna nell’intensificare ancora, anche in collaborazione con altri atenei, l’aiuto (borse di studio, inviti e altre forme di sostegno) destinato a questo duplice scopo. Sostiene la protesta pacifica delle studentesse e degli studenti nei campus universitari di tutto il mondo, ed esorta i governi occidentali, e tutti gli altri governi, ad ascoltare la voce che giunge dalle università.
Esprime solidarietà e ammirazione per le colleghe e i colleghi delle università israeliane che, rischiando il posto e spesso la libertà personale, prendono posizione contro i crimini del governo del loro Paese. Ed esorta tutti i rettori o le rettrici delle università israeliane che reprimono il dissenso interno a ricordare che un’università prona al potere esecutivo, schierata contro il pensiero critico e con il pensiero unico della guerra, non è una università.
Pur non avendo, in questo momento, accordi quadro con università in Israele, rifiuta, sul piano dei principi, il boicottaggio delle università di qualunque paese: «fidando nella libertà accademica e nella forza del dissenso, per sua natura inscindibile dall’attività di ricerca, l’Università intrattiene relazioni con università, istituti culturali, enti di ricerca di paesi di tutto il mondo, indipendentemente dal regime politico di quei Paesi» (dal Codice etico di ateneo).
Si impegna ad attuare con rigore – caso per caso, e con riferimento alle università di tutto il mondo – quanto è ancora prescritto dal proprio Codice etico: «Nel caso che un’istituzione in rapporto ufficiale con l’Università esprima posizioni ufficiali incompatibili con i valori della Costituzione italiana, gli organi dell’Università individuano il modo di manifestare il dissenso della comunità accademica, se necessario fino ad interrompere i rapporti».
Fonda il rifiuto del boicottaggio su base nazionale sulla convinzione che anche nelle situazioni peggiori di compromissione del sistema universitario con le politiche nazionali di guerra (quale quella israeliana) le università rimangano tra i pochi luoghi in cui può svilupparsi un pensiero alternativo; nonché sulla convinzione che le università non possano quindi essere identificate con i loro governi, né ridotte alla loro appartenenza nazionale: per questo la Stranieri non ha interrotto i rapporti con le università russe, e continua a collaborare con quelle di molti altri paesi in analoghe situazioni.
Dà corpo a questa convinzione praticando concretamente e verificabilmente l’autonomia universitaria garantita dall’articolo 33 della Costituzione della Repubblica. Lo fa attraverso azioni simboliche (per esempio: il rifiuto di aderire all’invito del governo ad esporre le bandiere a lutto per la morte di Silvio Berlusconi; la sospensione delle lezioni per il Ramadan e lo Yom Kippur…); attraverso scelte strategiche (il voto contrario in Crui sul rapporto con la fondazione Medor di Leonardo; la decisione di non aderire al neocoloniale Piano Mattei…); attraverso le regole che si è data (l’apertura a tutti i componenti del consiglio di dipartimento delle sedute ristrette per fascia) e attraverso precise norme del Codice Etico: «Tutte le componenti dell’Università, a partire dalla rettrice o rettore e da chi ha incarichi direttivi, sono tenute a salvaguardare l’indipendenza e l’autonomia della comunità accademica dal potere politico e da quello giudiziario, da quello religioso e da quello militare, dagli enti locali, dagli interessi economici, dai governi e dai corpi diplomatici stranieri»; «Nessuna ricerca di chi lavora e studia all’Università e nessun posto di insegnamento possono essere finanziati da imprese o fondazioni legate alla produzione e vendita di armi» (articoli 11 e 13)
Per questo, nel più profondo rispetto della loro autonomia, invita le altre università a considerare la possibilità di introdurre nei propri codici etici analoghi principi che inibiscano la collaborazione con l’industria delle armi; a valutare la rinuncia agli accordi che non siano direttamente ed esclusivamente tra università, ma passino attraverso i governi di paesi in guerra (come il contestato bando Maeci). E chiede a tutte le rettrici e ai rettori di domandarsi se non sia il caso di dimettersi dal consiglio scientifico di Medor.
Chiede alle università italiane di interrogarsi sulla opportunità e sui modi di coltivare ricerche al servizio della guerra (come pure avviene nei dipartimenti e nei centri di studi strategici); di dare più spazio e finanziamento alle azioni di Runipace; di porsi costantemente, e nel modo più trasparente, il problema della ricaduta militare delle proprie ricerche, portando in Europa una voce vigile e critica.
Condanna l’orientamento della Commissione Europea (espresso nel LIBRO BIANCO sulle opzioni per rafforzare il sostegno alle attività di ricerca e sviluppo che riguardano tecnologie potenzialmente a duplice uso del gennaio 2024) di dare largo spazio nell’ambito Horizon Europe al trasferimento in ambito militare dei risultati della ricerca civile: l’Europa unita nasce per preparare la pace, non per preparare la guerra, e l’arruolamento della ricerca è gravissimo e inaccettabile.
Rifiuta di conformare il proprio pensiero alle logiche feroci con cui pazientemente si costruiscono i conflitti e la loro inevitabilità, e alla grande semplificazione indotta dalla logica della guerra e dal criterio amico-nemico, rivendicando la missione dell’università: costruire, alimentare, difendere un pensiero complesso e nutrire i valori comunitari e una concezione universalistica dell’umanità.
Ritiene che nella sua particolare missione rientri il compito di decostruire il concetto di ‘identità occidentale’, sottoporre a critica sistematica ogni forma di nazionalismo e colonialismo, contestare le strutture identitarie teoriche (i ‘noi’ opposti ai ‘loro’) che alimentano e giustificano conflitti dovuti alla volontà di potenza degli stati e ai grandi interessi dei mercati globali. Allo stesso tempo prende le distanze dallo sciovinismo occidentale, che pretende di giudicare e risolvere i problemi di altri popoli contro le loro convinzioni e culture.
Riafferma il suo ripudio della guerra, ricordando il diritto ad esistere dello Stato di Israele, e il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. Chiede al governo italiano il riconoscimento dello Stato di Palestina (unendo così il nostro Paese al 70% circa dei membri della Nazioni Unite), ma è in sintonia con quanti, anche nel mondo ebraico (si pensi a Judith Butler), auspicano che si possa arrivare un giorno ad un unico Stato: non etnocratico ma binazionale, non confessionale ma laico, non teocratico e fondato sull’apartheid ma veramente democratico.
Ricordando il proprio impegno per il multiculturalismo e il plurilinguismo, fa sua la convinzione espressa, non in arabo ma in ebraico, dal grande poeta palestinese Mahmud Darwish: «Gli israeliani non sono più le stesse persone di quando arrivarono, e i palestinesi non sono più le stesse persone di un tempo. Nell’uno si trova l’altro».
È in questa prospettiva, che l’Università per Stranieri di Siena torna ad affermare con forza che tutto è perduto con la guerra, tutto è possibile con la pace”.
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