Ho lasciato i lettori con la promessa di approfondire due concetti che sono alla base dell’opera di Kohut, prima però è opportuno parlare della nuova psicologia che lo stesso fondò.
Al suo arrivo (1940) negli States la psicoanalisi americana era dominata dalla scuola freudiana con Anna Freud come garante ed esponente principale. L’indirizzo prendeva il nome di Psicologia dell’Io rifacendosi appunto alla stretta ortodossia del Maestro. Ricorderete dalla scorsa puntata che Kohut, prima di morire, partecipa al convegno dell’orientamento che aveva fondato ed a cui aveva dato il nome di Psicologia del Sé. Quali le differenze?
Il modello freudiano collocava il conflitto all’interno dell’Io, principalmente tra le pulsioni provenienti dall’Es e le istanze morali del Super Io. Per questo qualcuno la definiva una psicologia mono personale, tutto, infatti, si svolge nella testa della singola persona. La psicoanalisi di Kohut invece si fonda sul concetto di Sé e media la transizione dalle teorie pulsionali a teorie motivazionali più complesse. Kohut, infatti, sceglie di parlare del Sé, il nucleo più profondo e identitario di ciascuno di noi, come di un’entità au¬tonoma, priva di conflitto in sé. Per la sua teoria non esiste un Sé in astratto al di fuori di un ambiente interpersonale capace di scambi e rapporti. Quindi la radice degli eventuali conflitti viene collocata nel rapporto con le persone significative (quelle vere e non quelle interiorizzate, come sosteneva la Klein). Il Sé è visto come qualcosa che interagisce con l’ambiente, (mentre Freud vedeva l’Io in perenne conflitto con le pulsioni) che può farlo crescere o arrestare a seconda delle sue caratteri¬stiche (come l’empatia dei genitori); il conflitto nasce ed “abita” in quello spazio che esiste tra il Sé e gli altri.
E veniamo alle due parole che avevo promesso di approfondire: empatia e narcisismo.
Le parole hanno una vita, se ne stanno per anni nell’angolo riparato dove sono nate e poi d’improvviso invece diventano famose, utilizzate da tutti, quasi inflazionate. Questo sta capitando alla parola empatia. Ormai tutti la citano, appiccicandola a qualunque situazione: dal gatto di casa che è molto empatico, al leader politico che invece ne è del tutto privo.
Così si rischia di perderne il significato vero. Che è chiaro, e definisce la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato, prevalentemente senza ricorso alla comunicazione verbale. Quindi identifica la capacità di immedesimarsi nell’altro, di leggere i suoi pensieri a volte in maniera più chiara di quanto lo stesso soggetto sia in grado di fare. Questo, a mio parere, non è la stessa cosa di dare al termine il significato estensivo che oggi lo fa diventare sinonimo di buono, simpatico, gentile, comprensivo.
Kohut definisce scientificamente l’empatia dandole un duplice significato. Prima la identifica come lo strumento conoscitivo principe della psicoanalisi. Se l’ambiente fisico può essere indagato con le nostre percezioni o con vari sussidi meccanici, per il nostro mondo interiore possiamo fare affidamento solo sull’introspezione e la sua forma vicaria, l’empatia. Quindi l’empatia è una forma di introspezione, uno strumento appunto, che qualcuno mette a disposizione di un altro che per vari motivi non ne è provvisto o lo è in maniera minore. Quindi è in primo luogo uno strumento che può essere “addestrato” e poi utilizzato in maniera professionale.
In secondo luogo l’empatia rappresenta una vera e propria tecnica terapeutica che consiglia di utilizzare e lavorare con l’elaborazione delle emozioni provenienti dal paziente, raccolte attraverso quello strumento. Porta come esempio la considerazione che, se anche certi fenomeni possono essere misurati strumentalmente, per esempio le onde sonore di certe parole, è certo però che solo con l’empatia possiamo riconoscere se sono state pronunciate con rabbia o con altre emozioni.
Questa visione rivalutata dell’empatia mette in grado Kohut di portare un soffio di maggiore umanità all’interno di una pratica clinica che fino ad allora era un po’ “inamidata”. Infatti la Psicologia del Sé rappresentò anche una reazione alla tecnica psicoanalitica classica caratterizzata da atteggiamenti, fortemente raccomandati durante la formazione, che un analista doveva tenere in seduta quali anonimità, astinenza, neutralità, distanza emotiva, ecc.
Altro suo merito è stato inoltre quello di aver “sdoganato” il concetto di narcisismo che fino a quel punto soffriva di un cattivo giudizio. Considerato come necessario, nella visione freudiana, nello sviluppo mentale infantile, doveva poi essere abbandonato quasi del tutto, tanto che il Maestro usava tale termine per definire le psicosi. Chi non riusciva cioè a liberarsi dell’eccesso di narcisismo infantile andava incontro a malattie gravissime definite appunto nevrosi narcisistiche. Kohut invece sostiene che il narcisismo anche nella persona adulta è uno dei due naturali canali di investimento dell’energia psichica che si divide in parti quasi uguali tra sé stessi e gli oggetti esterni.
Più in generale, si può dire che Kohut si dovette confrontare con l’era del narcisismo, iniziata nelle ultime decadi del Novecento, tipica delle società ricche e benestanti, che spesso producono persone ossessionate dal proprio successo. Questo nuovo assetto sociale avrebbe prodotto quello che Kohut stesso definì l’uomo “tragico”, ben diverso dall’uomo “colpevole” che attirò l’interesse di Freud ai primi del Novecento.
Molte delle patologie di cui Kohut si è occupato sono ancora del tutto attuali. In tal senso le sue riflessioni a proposito di fenomeni come l’erotizzazione, soprattutto se perversa e masturbatoria, o come altre stimolazioni forti come l’uso di droghe, il gioco d’azzardo, o le automutilazioni, ci risultano ancor oggi particolarmente utili. A suo parere tali fenomeni possono servire a compensare un senso di depressione, di malessere interiore o di “frammentazione del Sé” non altrimenti gestibile, per mezzo di una forte sensazione fisica, che sia pure dolorosa, risveglia e “compatta” la psiche.
Insomma la sua psicoanalisi fa ancora un passo in più sulla strada indicata dalla Klein, approdando ad una visione dell’uomo in cui l’altro non è più solo un oggetto del mondo interno, ma acquista la piena valenza di persona reale.
Prima di concludere sono debitore ai lettori di una promessa fatta durante il pezzo su Freud. Dicevo in quella puntata che Kohut pesca dalla classicità un mito diverso da quello di Edipo.
Lo fa in uno dei suoi libri più interessanti: Le due analisi del signor Z., testo autobiografico, nel quale racconta le analisi (due appunto) a cui si sottopose nel periodo della propria formazione. In quello scritto cita il mito della pazzia di Ulisse.
Nei preparativi della guerra di Troia, Palamede, il reclutatore inviato da Agamennone alla ricerca dei migliori combattenti achei, arriva ad Itaca. Ulisse, per via della profezia di una lontananza lunghissima da casa, non ha alcuna voglia di arruolarsi e decide di fingersi pazzo per non partire. Così si fa trovare sulla riva del mare intento ad arare la spiaggia e a seminare sale, comportamento senza senso, da pazzo. Ma Palamede non si fida e con un gesto improvviso si impadronisce del piccolo Telemaco e deposita il neonato proprio sulla linea dell’aratro di Ulisse. Che recuperando improvvisamente la lucidità, fa compiere al vomere una deviazione a semicerchio (che Kohut battezza “il semicerchio della salute mentale”), evitando così di fare del male al figlio. Certo, a quel punto la sua finta pazzia è svelata e ad Ulisse non resta che accettare il pressante invito di partire per la guerra. Ma il figlioletto, che rappresenta il suo futuro, è intatto e salvo. È un modo diverso di interpretare la genitorialità: nel mito di Edipo, Laio e Giocasta sono dannati da una sorte tragica che li sovrasta privandoli di scelta, qui invece prevale la salute mentale, la capacità paterna di proteggere un figlio e di dirigere autonomamente il proprio destino.
Andrea Friscelli