Rimettendo a posto i miei libri, ricordi di studi giovanili, di esami universitari oltre che di passioni mai sopite, mi sono imbattuto nel Il Capitale, memoria di storia del pensiero politico: sfogliandolo sono andato a ricercare una frase contenuta nel secondo libro: “Il processo di produzione appare soltanto come termine medio inevitabile, come male necessario per far denaro. Tutte le Nazioni a produzione capitalistica vengono colte perciò periodicamente da una vertigine, nella quale vogliono fare denaro senza la mediazione del processo di produzione”.
Si pensi ai recenti casi degli istituti di credito. La banca ha accumulato troppi debiti? E che problema c’è… basta un derivato e tutto si risolve. Se, come diceva Keynes, “nel lungo periodo siamo tutti morti”, le banche hanno pensato bene di guardare all’oggi, ripulendo momentaneamente il bilancio e spostando in avanti le perdite, ulteriormente indebitandosi. D’altronde il tempo è denaro, e così bisognava fare.
Bisognava farlo contravvenendo le più elementari regole del codice civile, quelle sulla correttezza e trasparenza dei bilanci e ignorando ogni buona pratica a livello finanziario, fiscale e commerciale.
Tanto forte è stata questo “richiamo” che ad un certo punto è intervenuto anche il legislatore, “regolarizzando” perfino le operazioni più ardite, al limite della truffa. Ecco allora che il sistema delle “cartolarizzazioni”, o di cessione di crediti, insieme a quello dei “derivati”, degli swap, diventa una roba gigantesca. In Italia, prima che intervenisse il D.lgs. n.130/1999, non era consentito, ad esempio, emettere titoli obbligazionari senza garanzia, generando credito da altro credito, tranne che “per particolari ragioni che interessano l’economia nazionale” (Art. 2410 Cod. Civ.). Poi, con le nuove norme, tutto è cambiato e, caduti gli argini, il fiume è straripato.
La girandola, semplificando, è diventata insomma questa: c’è Tizio (Supponiamo che sia una banca) che vanta un credito di 100 nei confronti di Caio (Ad esempio un mutuatario). Tizio cede il credito a Sempronio (Una società – veicolo SPV), che gli corrisponde l’importo equivalente più l’aggio. Sempronio emette titoli per un valore equivalente al credito avuto in cessione. I titoli sono sottoscritti da Mevio (Investitore, pubblico o privato). In pratica sulla promessa di Caio di pagare le rate del suo mutuo si mette in piedi un meccanismo di moltiplicazione di ricchezza. Un meccanismo poggiato sul nulla, insomma.
Ma chi garantisce Mevio per i titoli sottoscritti? Forse Tizio? No. Allora Sempronio? Nemmeno. La garanzia è data soltanto dal flusso finanziario derivante dai pagamenti di Caio. E se Caio non paga? Beh, in questo caso il titolo diventa un “titolo-spazzatura” (Junk bond), che non potrà più essere rimborsato. Su grande scala una situazione di questo tipo si chiama crack, o default se piace di più. È quello che ha riguardato, ad esempio, centinaia di banche americane dal 2008 ad oggi, con gli effetti a catena sull’economia globale che ben conosciamo; è quello che hanno all’opposto evitato centinaia di banche europee grazie all’iniezione di liquidità effettuata quasi a gratis dalla Bce tra il 2011 ed il 2012.
Prima che il castello di sabbia si sgretoli qualcuno (banche, società–veicolo), però, ci guadagna, ci guadagna molto, a scapito della stabilità dell’edificio finanziario di un paese, o di un continente, di più continenti.
È stato calcolato che solo le banche dell’area Ue, nel periodo che va dal 2000 al 2008, hanno effettuato un volume di cartolarizzazioni pari a circa 4mila miliardi di Euro. Una bolla gigantesca il cui scoppio, per i rischi connessi alla solvibilità dei debitori ceduti, potrebbe mandare in frantumi l’economia del vecchio continente. Ma tant’è. L’imperativo è sempre quello di fare soldi con i soldi, ad ogni costo, con ogni mezzo, anche a costo di scommettere, come nel caso dei derivati, sulla morte civile di un paese.
Tutto ciò mentre l’economia reale, quella relativa alla produzione di beni e servizi, annaspa, va in crisi, ed i cittadini europei sono costretti a fare i conti con disagi e privazioni, precarietà e disoccupazione. Evidentemente c’è qualcosa che non va. C’è una correlazione tra la crescita esponenziale del volume delle transazioni finanziarie e la sofferenza dell’economia reale nei principali paesi d’Europa? Evidentemente sì. Essa consiste nel fatto che una parte rilevante del quantitativo di moneta circolante, già ridottosi per effetto della recessione, anziché dirigersi verso gli investimenti nei settori produttivi dell’economia segue ormai la via della speculazione fine a se stessa. E, come tutti sanno, la speculazione non si fregia di nessuna utilità sociale, essendo la sua missione quella di tirare profitti dalla compravendita di titoli finanziari, per il solo, e rapido, arricchimento di chi ne è artefice, degli scommettitori professionali, per intenderci.
Si torna, ordunque, alla constatazione marxiana che ho riportato in apertura dell’articolo. Se dal denaro, anche da quello virtuale, si può tirare fuori altro denaro, direttamente, velocemente, senza “la mediazione del processo di produzione”, perché attardarsi nell’impresa faticosa del produrre per guadagnare? Sarà stata, questa, anche la valutazione di tanti capitani d’impresa, che, negli ultimi anni, hanno pensato bene di investire i loro capitali in attività finanziarie anziché reimmetterli nel ciclo produttivo.
Si può mettere un limite alla speculazione finanziaria? Si deve. Come? Tassando innanzitutto le transazioni, separando nettamente le banche d’investimento da quelle commerciali, vietando l’emissione di titoli senza copertura finanziaria certa e garantita, introducendo regole ed elementi di trasparenza nel sottobosco dei mercati paralleli e secondari, in quell’universo chiamato “finanza-ombra” che in Europa fa il 28% dell’intero volume delle intermediazioni finanziarie.
La finanziarizzazione dell’economia assomiglia sempre più ad una malattia autoimmune: il capitale, anziché servire l’economia reale, si dirige contro di essa, distruggendola. Non intervenire significherebbe condannare le nostre società alla catastrofe.
Luigi Borri
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