Come è risaputo il più antico trattato della via Francigena in Val d’Elsa aveva un percorso pedecollinare che si snodava sulla sinistra del fiume Elsa puntando su Borgo Marturi (Poggibonsi) per poi dirigersi verso Castelfiorentino in una vasta area pianeggiante in buona parte paludosa come ci riporta ad esempio la toponomastica della località Giuncaia.
Il professor Renato Stopani, studioso del luogo ci spiega che il territorio nella zona in questione conserva molteplici testimonianze dell’antica strada il cui tracciato in realtà doveva avere più bracci per far comunicare più i vari abitati della zona. In tutto questo i monaci cistercensi, nel processo di localizzazione dei loro insediamenti curarono sempre un aspetto fondamentale dei luoghi ove collocare la loro l’esistenza ovvero quello di stabilizzarsi sempre vicino ad un corso d’acqua che potesse fornire dell’energia idraulica come avvenne per l’Abbazia di San Galgano in Val di merse.
Attinendosi strettamente alla massima Benedettina “Ora et labora” i monaci del nuovo ordine oltre a porsi come luogo di preghiera e di elevazione spirituale dovevano essere centri direzionali e operativi delle attività economiche fondamentali rappresentate In primo luogo dall’agricoltura.
I cistercensi si distinsero quindi nelle operazioni di bonifica e nella creazione di impianti industriali azionati dalle forze dell’acqua che serviva a far funzionare i loro macchinari.
Dalla grande Abbazia di San Galgano (il primo e più importante insediamento cistercense della Toscana) si distaccò intorno all’anno 1220 un piccolo numero di monaci (circa una dozzina) che si stabili in Val d’elsa. Il luogo scelto per creare il loro nuovo convento si trovava sul primitivo tracciato della via Francigena nei pressi del castello di Ulignano nel contado Sangimignanese.
I cistercensi raggiunsero in breve tempo quello che costituiva il principale obiettivo della loro presenza in Valdelsa ovvero la bonifica dell’area impaludata e dovettero pensare a tutto per far sì che andasse tutto a buon fine e che l’impaludamento rendesse facile la creazione di gore e canali per acquisire l’acqua del fiume per le nuove strutture.
Il 21 Maggio 1281 i monaci costruirono una società con il comune di San Gimignano per costruire una nuovo struttura nel fiume Elsa e fu così che ebbe inizio l’operazione che portò alla nascita del Molino di San Galgano.
In realtà la struttura realizzata dai monaci in prossimità del fiume non era composta soltanto da un Molino ma anche di altri due edifici. Una tavoletta votiva conservata nel Museo dell’Opera di San Gimignano raffigura la struttura di San Galgano assediato agli spagnoli nel 1529 che ci mostra un complesso di fabbricati al cui centro vi è una costruzione più grande circondata da altri edifici più bassi che si affacciano su uno specchio d’acqua. Il Mulino in particolare sappiamo che era a 5 pale aveva quindi una notevole capacità di lavoro che consentì in di sopperire alle necessità dei produttori di grano di tutta la comunità di San Gimignano (non a caso nel tempo a seguire sarà anche chiamato Molino di San Gimignano). Il Mulino funzionò per molti molti anni e anche per tutta la prima metà del 900 e lo fece continuando a utilizzare la forza motrice dell’acqua. All’inizio della seconda guerra mondiale quando anche l’energia elettrica veniva razionata a differenza dei Mulini più moderni risentivano meno dell’ intermittenza dell’elettricità e riusciva a funzionare sempre a pieno regime, almeno sino a luglio 1944 quando venne bombardato e investito come tutta la Valdelsa dal fronte di guerra. Prontamente riparato già nel 1945 poté proseguire la sua attività per qualche altro anno ma con il tempo non fu più in grado di sostenere la concorrenza degli impianti tecnicamente più avanzati che andavano nel frattempo sorgendo nelle principali località valdelsane.
Il molino così scomparve del tutto ingoiato da un anonimo fabbricato industriale con tanto di ciminiera e anche gran parte del tratto terminale della gora venne interrato per realizzare un piazzale nel quale furono eretti un capannone e altri annessi. È probabile che l’antico edificio non fosse mai stato demolito del tutto ma che fosse solo stato inglobato in quello nuovo centro. La strutture sotterranea del molino con le originali turbine e le prese d’acqua esistono ancora e se pur con grande difficoltà sono raggiungibile e visitabili.
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C’è da aggiungere inoltre che con molta probabilità il mulino non avrebbe ”retto” a quel terribile 4 novembre 1966, alcuni racconti parlano dell’acqua dell’Elsa che scorrendo come una valanga di fango, salendo sempre di più lungo il terreno a causa del fatto che alla sua foce trovò molto più alto l’Arno e ritornò in dietro provocando grandi rovine da Ponte a Elsa fino quasi a Colle. L’acqua in qualche punto segnò anche quattro metri di altezza in più del mormale.
Nel circondario ci furono diverse vittime e danni molto gravi. Le automobili rimasero capovolte sotto l’acqua, le colture nelle aziende agricole furono sbarbate, il bestiame morì annegato nelle stalle, tanti animali da cortile ed interi allevamenti di fagiani non riuscirono a salvarsi. Tutto fu distrutto in poco tempo. Anche le fabbriche, le vetrerie e le cartiere furono danneggiate. Tutte le aziende passarono parecchi giorni difficili prima di riprendere la loro attività. Mancava l’energia elettrica e il telefono. Dopo la piena, mentre il livello dell’acqua si abbassava, tutto rimase sotto la melma. Da qui si deduce che “forse” anche quel vecchio mulino avrebbe riportati gravi danni.
Gabriele Ruffoli